Al loft di Veltroni è il giorno del lutto
15 Aprile 2008
Nonostante
i sorrisi forzati e le stiracchiate dichiarazioni di soddisfazione dettate a
favore di telecamera, la sconfitta di Walter Veltroni ha un sapore amaro e acre
e il marchio della delusione si stampa a fuoco sulla pelle dei maggiorenti del
Pd che scorrono davanti alle telecamere senza proferire parola. L’amarezza è
figlia dei numeri. Quel 33,7% che il risultato finale assegna alla creatura
nata dalla fusione tra Ds e Margherita rappresenta un bottino decisamente
insufficiente, inferiore a quella soglia del 35% che avrebbe rappresentato la
vera frontiera del successo elettorale per il partito del loft. E invece non
solo l’obiettivo non è stato raggiunto ma la potente erosione di consensi che
ha colpito la Sinistra l’Arcobaleno ha dimostrato plasticamente il fallimento
della strategia veltroniana.
Se,
infatti, da una parte può aver fatto breccia nel cuore acceso degli
antiberlusconiani la mistica del “voto utile” determinando un travaso di voti
dai vari Bertinotti, Pecoraro e Diliberto verso il Pd, dall’altra è di tutta
evidenza che il tentativo di sfondare al centro attraverso una modernizzazione
del programma e la cooptazione di una manciata di industriali del Nord non è
apparsa credibile all’elettorato e non ha determinato alcuno sfondamento in quella direzione. La sintesi è semplice: davanti a una brutta copia, i ceti produttivi
del Nord preferiscono indirizzarsi verso l’originale e concedere il proprio
voto a Silvio Berlusconi o a Umberto Bossi. E la modernizzazione del marchio
post-comunista deve ancora passare attraverso molti altri esami di maturità e
credibilità.
A
rendere ancora più doloroso il colpo, poi, c’ è anche la modalità attraverso
cui il verdetto prende forma durante la giornata, con l’illusione iniziale
regalata dagli exit-poll che sembrano fotografare una differenza esigua tra Pd
e Pdl. I dirigenti giunti al loft per attendere i risultati con Veltroni (Dario
Franceschini, Antonello Soro e Anna Finocchiaro, Massimo D’Alema, Pierluigi
Bersani, Beppe Fioroni) mostrano volti distesi se non sorridenti. Dopo un’ora e
mezzo, la prima proiezione fa capire quale sarà la realtà: la forbice diventa
di quattro punti, e sale a cinque nella seconda. E i volti diventano tesi,
contratti, segnati dalla delusione, come quello di Livia Turco che arriva a
metà pomeriggio o di Cesare Damiano che parla apertamente di risultato%0D
«deludente».
Lo sconforto inizia a prendere piede ma si cerca in qualche modo
di dettare una spiegazione dai contorni auto-assolutori. “È vero, non è stato
toccato quel 35% che aveva evocato Goffredo Bettini” dicono al loft “però
questo è avvenuto perché si è pagato il calo della Campania e la
forte dichiarazione di guerra alla mafia fatta da Veltroni in Sicilia,
Calabria e Campania”. Di certo la scelta di Veltroni di andare da solo ha
incassato un generico plauso popolare da parte dell’elettorato ma non si è poi
tradotto in voti. Così come l’attacco al Nord è stato sventato dalla potenza di
persuasione della Lega. Ma l’interrogativo maggiore, su cui ancora nel Pd non
c’è una risposta riguarda la scomparsa dal Parlamento della sinistra radicale,
con l’onere di rappresentare nelle aule di Camera e Senato anche
quell’elettorato (almeno quello che ha votato Pd).
La
strada del dopo-sconfitta appare costellata di difficoltà. E, secondo qualcuno,
non è un caso che Veltroni si sia presentato in sala stampa dai giornalisti con
tutto lo stato maggiore del Pd attorno a lui. Una convocazione allargata che
per qualcuno nel partito è già il segno di un aggiustamento della corsa, finora
solitaria, del leader del Pd. La ferita, naturalmente, è ancora troppo fresca.
E già iniziano le prime voci critiche all’interno della coalizione dell’ex
sindaco capitolino. «Peccato, Veltroni non ci ha permesso di replicare il
miracolo del 2006» dichiara Marco Pannella “quando l’Unione prese un milione di
voti in meno di Berlusconi, ma aggiunse il milione della Rosa nel Pugno
(radicale ben più che socialista) grazie alle centinaia di migliaia di voti
direttamente tolti al centro-destra”. E c’è anche chi invoca una gestione più
collegiale del partito. Una direzione più partecipata che sappia completare la
transizione del Pd verso l’acquisizione della nuova identità riformista e dare
un senso al grande terremoto di metà aprile che sembra riscrivere in profondità
la storia della sinistra italiana.