Al mesto decennale del Pd, rispunta lo ius soli
15 Ottobre 2017
Ormai è chiaro a tutti che il decennale del Pd, che si festeggia oggi all’Eliseo, se non proprio “un giorno di lutto”, come l’ha definito con durezza Arturo Parisi, è una celebrazione mesta, che pone la definitiva pietra tombale su un Pd che non c’è più. Benché infatti ad aprire l’evento sia Veltroni, il teorico del “ma anche”, la sua presenza sembra più una foglia di fico, un tentativo di rendere meno visibile il trauma del cambiamento profondo del partito. Le assenze sono pesanti, sono tante, e chi ha confrontato i protagonisti degli inizi con quelli che oggi saranno sul palco, ha notato che quasi tutti i fondatori non ci saranno.
Prodi e Parisi, simbolo della visione inclusiva, aperta (fin troppo, commentano alcuni, ricordando la difficoltà di tenere insieme tutti, una volta al governo) su cui è nato il Pd, creato per attirare a sé la maggior parte della frastagliata galassia del centrosinistra, non ci saranno: non sono stati invitati. Una presenza scomoda, quella di chi è riuscito per due volte a battere il centrodestra, ma lo ha fatto con un metodo che è l’opposto di quello adottato da Renzi. Il Pd di oggi è tendenzialmente un partito personale, dove il leader regna con un piccolo circolo di sodali, senza nemmeno più il velo del “centralismo democratico” di antica memoria. Il nuovo segretario non aggrega, non federa, non allarga, non stringe nemmeno alleanze (solo patti transitori legati alle contingenze, fragili e privi di visione politica); piuttosto divide, lacera, esclude. Vive di tattiche e di calcoli politici di corto respiro, e se questa legge elettorale ha dei difetti, sono legati proprio alla mancanza di una visione ampia, alla volontà di Renzi di ottenere il consenso dei partiti sulla base delle convenienze spicciole più che su un patto per l’Italia.
In questo clima di piccole furbizie (Renzi vuole che la legge elettorale sia votata prima delle elezioni siciliane, che possono, con la probabile sconfitta del Pd, aprire contraccolpi interni nel partito), rispunta naturalmente lo ius soli. Il “gentile” Gentiloni rivendica indirettamente il metodo usato per la legge elettorale, attribuendo al Pd il merito delle unioni civili, e ripropone la cittadinanza agli immigrati: “Abbiamo introdotto le unioni civili in questo paese e ne siamo orgogliosi. E spero che saremo orgogliosi di poter dire che un altro diritto, quello dei bambini che frequentano le nostre scuole, che sono nei nostri quartieri e giocano nelle squadre di calcio, ma che sono nati da genitori stranieri, possano avere il diritto alla cittadinanza“.
Ma è solo grazie alla fiducia che la maggioranza ha fatto passare le unioni civili: ricordiamo bene come, né alla Camera né al Senato, ci sia stata la possibilità di svolgere il compito proprio dei parlamentari, cioè discutere il testo in aula e votare gli emendamenti. Questo metodo è stato utilizzato in modo identico per il Rosatellum: anche qui il governo aveva promesso di restare fuori da una legge che avrebbe dovuto seguire il percorso parlamentare, e invece, con un colpo di coda (e di mano) ha imposto la fiducia.
In questa situazione di crisi della sinistra in generale e del Pd renziano in particolare, Gentiloni evidentemente pensa, ribadendo la volontà di far passare lo ius soli in questa legislatura (“è impegno mio e del governo”, ha affermato) di rafforzare l’identità incerta del suo partito, indebolito dalla divisioni, e di recuperare a sinistra. Chissà, forse ancora a colpi di fiducia.