Al Qaeda cambia pelle: è ora di identificare il bersaglio
02 Dicembre 2010
C’era una volta un’organizzazione terroristica finanziata da un ricco saudita, Osama Bin Laden, cresciuta seguendo i dettami di un medico egiziano, Ayman al-Zawahiri. Siamo negli anni novanta: Bin Laden e al-Zawahiri, che si sono fatti le ossa in Afghanistan ed Egitto, tengono saldamente in mano le redini di al Qaeda, e sognano il più grande attacco terroristico della storia contro gli Stati Uniti. Tutto parte da loro, tutto è deciso da loro: pianificazione, selezione dei “guerriglieri”, addestramento – fisico, psicologico e filosofico – degli attentatori. Il risultato di tanto lavoro è il giorno più nero dell’Occidente, l’11 settembre 2001, e tutto ciò che ne consegue: la “scoperta” su larga scala del terrorismo islamico, la guerra in Afghanistan, la lotta globale al terrorismo. Nove anni dopo, possiamo dire con certezza che niente è come prima: ma se le nostre vite sono cambiate radicalmente, anche al Qaeda non è più quella di un tempo. Bin Laden e al-Zawahiri sono costretti a nascondersi, così il Mullah Omar (che ha permesso la pianificazione dell’11 settembre nei campi di addestramento afgani): al Qaeda, oggi, ha decisamente cambiato pelle.
Per comprendere la metamorfosi della rete di Osama basta leggere il numero speciale di “Inspire”, rivista ufficiale di al Qaeda in lingua inglese, pubblicato questo novembre. Recuperarlo è semplice: basta una ricerca su Google, e subito apparirà l’ultima copia di un magazine patinato giunto già al terzo numero. In copertina c’è la coda di un aereo dell’Ups, e una scritta a caratteri cubitali: “$ 4.200”. Il riferimento è ai pacchi bomba che i terroristi hanno recentemente spedito in giro per il mondo a bordo di aerei cargo, mettendo in crisi i sistemi di sicurezza degli aeroporti mondiali, e ai costi sostenuti dall’organizzazione (poco più di 4.000 $). L’idea di “Inspire”, nato nel luglio 2010 per propagandare il terrorismo presso islamici madrelingua inglesi, è semplice: tutti, con poche migliaia di dollari, possono mandare in tilt la sicurezza dell’Occidente, seminando il panico presso stazioni e aeroporti. A pagina tre, nell’editoriale di apertura della rivista, si legge: “La strategia di al Qaeda era quella di colpire in grande sfruttando l’impreparazione del nemico. I casi di Washington e New York rappresentano le più imponenti operazioni speciali nella storia dell’uomo. […] Tuttavia, per colpire l’America non dobbiamo necessariamente fare le cose in grande”.
“Nell’attuale panorama di un’America terrorizzata per la propria sicurezza – continua ‘Inspire’ – è più utile pianificare attacchi su scala minore, che occupino meno persone e meno tempo”, quanto basta per “eludere le barriere che l’America ha eretto con tanto fatica”. Il cambio di strategia è epocale: l’obiettivo, nel 2010, è quello di “far sanguinare il nemico fino alla morte”, senza più cercare un singolo colpo mortale (ovvero una replica dell’11 settembre). La nuova al Qaeda si basa sul concetto di “open source jihad”: in altre parole, punta sulla realizzazione di piccoli attacchi da parte di simpatizzanti sparsi per il mondo, operazioni “in franchising” che promuove per mezzo di video e riviste (tra cui “Inspire”) e su cui appone poi il proprio marchio. Sul suo blog “Global Guerrillas” l’analista militare John Robb ha spiegato la nuova strategia del terrore in termini di ROI (Return On Investment), un parametro economico che calcola la redditività di un investimento: “I costi di sicurezza inflitti da una simile operazione (i pacchi sugli aerei, ndr) si contano in milioni di dollari”, a fronte di 4.000 $ di investimento. Un successo enorme.
L’al Qaeda del 2010 si presta a una doppia interpretazione. Da un lato, il fatto che il terrorismo punti su piccoli attacchi non coordinati è innegabilmente un successo della guerra al terrorismo imbastita dall’Occidente: l’editoriale della rivista “Inspire”, infatti, ammette implicitamente che la rete di Bin Laden non è più in grado di portare a termine un attacco come quello che ha sconvolto New York. D’altro canto, però, il network del terrore mostra una grande capacità di adattarsi alla situazione contemporanea: secondo Bruce Hoffman, esperto di terrorismo della Georgetown University sentito dal “New York Times”, gli Stati Uniti non possono più “continuare ad aumentare i controlli su tutti i passeggeri ogni volta che c’è un allarme”, anche perché l’allarme è ormai permanente. Che fare, allora, per fronteggiare la nuova guerriglia islamica? Secondo Hoffman, l’amministrazione americana dovrebbe “seguire l’esempio israeliano e puntare sull’individuazione dei sospetti tramite metodi di prevenzione, come gli interrogatori e l’osservazione dei comportamenti”. È una possibilità. Questa, ad ogni modo, sarà la sfida del futuro.