Al vertice di Davos i supermanager non sono più quelli di una volta

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Al vertice di Davos i supermanager non sono più quelli di una volta

26 Gennaio 2011

Davos è tornata di moda. I “top bankers” si sono nuovamente dati appuntamento al 41esimo World Economic Forum. Mentre il mondo sprofondava nella recessione non era il caso di farsi vedere in giro. Lo scorso anno (ma anche nel 2009), mentre si riuniva il gotha dell’economia, infuriavano le polemiche sui compensi astronomici dei signori della finanza. Il presidente americano Obama prometteva di mettere un tetto agli stipendi dei super manager. Così, la presenza dei grandi banchieri si era un po’ affievolita. Quelli che si aggiravano tra le montagne dei Grigioni se ne stavano in disparte, senza farsi troppa pubblicità. Era tempo di riflessione, di ripensare un sistema malato.

In questa edizione 2011 del  World Economic Forum i banchieri sembrano essere tornati. Il picco della crisi finanziaria sembra lontano e i si può parlare di crisi economica e disoccupazione con toni meno drammatici. Allora si può tornare ad incontrarsi. Si può discutere su come ripensare la governance del mondo e degli affari, che dopo la crisi non sono più gli stessi. Non sono più le stesse neppure le star del summit. Gli americani la facevano da padrone. Le grandi banche d’affari Usa venivano tra le cime innevate a spiegare a tutti come avevano creato il modello che permetteva al mondo di spendere più di quanto risparmiato, come si fabbricano soldi grazie ai derivati, l’illusione dei mutui subprime.

Ora che la globalizzazione estrema e un sistema economico tutto incentrato sulla finanza hanno mostrato clamorosamente i propri limiti strutturali, la colonia statunitense si è ridimensionata. Basta pensare che al Forum non ci saranno i giganti Goldman Sachs e Morgan Stanley.  La finanza americana ha assunto un basso profilo e sembra essere molto più concentrata su questioni domestiche ora che l’economia a stelle e strisce manda timidi segnali di ripresa. E’ significativo che sia rimasto negli Usa Jeff Immelt, ceo di General Electric, da pochi giorni a capo del Council on Jobs and Competitiveness, il gabinetto dei consiglieri economici della Casa Bianca prima guidato dal fedelissimo Paul Volcker. Perché questo nuovo isolazionismo economico? Perché negli Stati Uniti la disoccupazione morde come non faceva dagli anni Trenta e se il sistema economico non riparte non si salva nessuno.

Se la gente non ricomincia a riempire i carrelli da Wall Mart, se i prezzi delle case non torneranno a salire, insomma se “main street” non torna a respirare, saranno tempi duri anche per Wall Street. Gli Stati Uniti sono traumatizzati. La crisi ha scosso la coscienza economica del Paese. Negli ultimi due anni in cui il contribuente americano non ha fatto altro che sentir parlare di banche “to big to fail” cioè da salvare con i dollari dei cittadini mentre il deficit cresceva a dismisura. Una vera e propria eresia nella terra del libero mercato e dello stato minimo. Obama ha speso gran parte del suo mandato a promettere che non ci saranno più banche da salvare con i soldi degli americani. Ha promesso costantemente di essere più duro con i banchieri. Ma non è bastato. Il presidente è sotto il fuoco incrociato.

Da una parte i repubblicani gli rimproverano di schiacciare l’America sotto il peso del debito pubblico e lo ritraggono come l’amico dei banchieri. Dall’altra, i liberal come Paul Krugman lo rimproverano per aver varato piani di sostegno all’economia giudicati troppo “leggeri”. Nell’immaginario collettivo americano Wall Street, le banche, i manager dagli stipendi con troppo zeri rappresentano il mostro che ha generato la crisi. Lo stesso che si celebra a Davos.  Ma il discorso non si limita agli Stati Uniti. Anche altri leader mondiali considerano ancora troppo rischioso accostare il proprio nome a quello della grande finanza. Non è ancora il caso di fare gli amici dei banchieri mentre le opinioni pubbliche occidentali devono fare i conti con la mancanza di lavoro e la contrazione dei consumi.   

Sorprende la decisone della Cina, che negli ultimi anni è sempre stata tra i protagonisti del Forum, di non inviare personaggi politici di primo piano. Ma c’è comunque chi volerà tra le nevi della “Montagna incanta” di Thomas Mann. Il cancelliere tedesco Angela Merkel potrà mostrare con orgoglio come il modello renano ha resistito alla tempesta che rischia di travolgere il resto dell’Europa. Assieme al presidente francese Nicolas Sarkozy dovrà mandare un segnali rassicuranti sulla salute dell’Euro. In Svizzera ci sarà anche George Papandreou. Il primo ministro greco cercherà aiuti per la traballante economia ellenica. Prometterà condizioni vantaggiose a chi vorrà investire all’ombra del Partenone. Un po’ come ha fatto con i cinesi che in cambio hanno acquistato una quota consistente del  debito pubblico del suo Paese. Il discorso di apertura di mercoledì dovrebbe essere tenuto dal presidente russo Dmitry Medvedev. Il Cremlino che ha voluto fortemente la presenza al Forum 2011 per dare l’impulso decisivo all’adesione al Wto.

Se negli anni passati a farla da padrone erano i rappresentanti dei Paesi del G8, le economie “mature”, questa volta, a detta di tutti, sarà l’edizione di Brics e soci. A Davos si metteranno in prima fila le nazioni che vogliono affermarsi come pilastri del nuovo ordine economico e finanziario. Se il motore dell’economia mondiale non si è bloccato del tutto lo dobbiamo ai paesi emergenti. La Cina è ormai la seconda economia del mondo, con una quota del 9% del Pil. Russia, Brasile e India contribuiscono all’incremento del prodotto mondiale dell’8%. Ma la durezza della crisi farà entrare nell’élite dei global players altri, nuovi protagonisti.

Tra i più attesi del Forum c’è Susilo Bambang Yudhoyono, presidente dell’Indonesia, il più popoloso paese musulmano con una rampante economia. Accanto a lui anche il presidente del Messico Felipe Calderon oltre ai rappresentati di Corea del Sud, Polonia, Turchia. Essere tra i protagonisti di Davos vuol dire entrare a far parte di quel gruppo che gestisce le sorti del mondo globalizzato. E’ la certificazione della nascita di un mondo diverso, a due velocità. Da una parte i paesi emergenti con Pil in espansione, dall’altra Stati Uniti e l’Europa soffocati da debiti pubblici fuori controllo e dalla disoccupazione.