Alemanno non può permettersi di fallire ma non potrà piacere a tutti

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Alemanno non può permettersi di fallire ma non potrà piacere a tutti

29 Aprile 2008

Quando vince la squadra del cuore – specie se ha passato
anni in fondo alla classifica, spernacchiata dagli avversari e ignorata dalla
grande stampa – un paio di giorni di follia, qualche intemperanza e i colori del
team su tutti i muri, sono da mettere nel conto e nessuno si scandalizza. Poi
però la coppa si mette in bacheca e si ritorna sul campo di gioco e alla
routine dell’allenamento.

Così nessuno si dovrebbe scandalizzare più di tanto per i
festeggiamenti dei sostenitori di Gianni Alemanno dopo la sua incredibile affermazione
nelle elezione a sindaco. Qualche saluto romano, qualche eia, eia, alalà, fanno
parte della scenografia scontata di una vittoria  conquistata proprio
contro coloro che speravano di vincere agitando lo spauracchio del fascismo. C’è
dunque un che di liberatorio in quei gesti e la voglia di una piccola rivincita
anche simbolica contro l’egemonia perbenista che ha messo Roma allo stremo.

Anche in questo caso però deve arrivare presto il tempo di
mettere da parte feste e revival e cominciare ad affrontare gli infiniti problemi
della capitale. Dopo decenni di governi democristiani o comunisti (di cui gli
ultimi 15 di regime rutellian-veltroniano) per il centrodestra italiano si
presenta un’occasione che non si può perdere. Alemanno deve attrezzarsi fin dal
primo giorno nell’impresa di non fallire a Roma: nessuno si aspetta miracoli,
ma il senso di un cambiamento di rotta e di stile deve essere percepibile al
più presto.

Il neo sindaco ha fatto bene nel rasserenare gli animi e nel
dichiararsi il sindaco di tutti i romani, ma non deve spingersi troppo oltre
nel voler tenere assieme tutto e tutti. In Italia da quasi un decennio il regime
dell’alternanza a livello nazionale si è affermato e nel bene o nel male ha
prodotto risultati: un certo spoil system nelle nomine, la selezione di classi
dirigenti alternative, l’affermarsi di interessi netti e contrapposti su alcuni
temi nodali per lo sviluppo del paese.

A Roma tutto questo è mancato: la continuità pluridecennale
nella gestione del potere ha impastato uomini e interessi in un’unica e
gigantesca matassa che ha finito per soffocare città e cittadini. Alemanno deve cominciare a districarla e lì
dove non riesce, deve  tagliare i nodi di
netto; deve riuscire a mettere in concorrenza gli interessi finora collusi e deve
sottoporre alla selezione del mercato i gruppi di potere che finora si sono
spartiti a tavolino le risorse della capitale.

Non c’è nulla di male ad evocare anche per Roma il metodo
dello spoil system. Alemanno ha detto invece che non vuole sentirne parlare e
che per lui conta solo il merito. Sono parole concilianti, adatte alle prime
ore di un vincitore;  ma in seguito, se
vuole navigare sulle acque torbide della capitale, se vuole sfuggire ai  suoi trucchi e alle sue mille seduzioni,
dovrà imparare a scegliere di chi fidarsi ed essere consapevole che il
Campidoglio sarà fin dall’inizio un fortino assediato.

La sua vittoria è stata un fenomeno antropologico prima
ancora che politico. Lo scontro sui programmi in campagna elettorale è stato
esile e spesso pretestuoso, ma lo scontro tra culture e tra “etnie” è stato
invece sanguinoso e senza esclusione di colpi. Roma ha bisogno di terapie shock
per risvegliarsi e non tutte o molto poche potranno essere condivise. Anche a
molti cittadini, e non solo alle vecchie
elites, potranno non piacere le sue iniziative: se ne faccia una ragione. Ma se
le idee sono chiare e la squadra è compatta il sindaco potrà alla fine
convincere tutti che vale la pena tentare strade nuove e impervie. E’ successo
alla Moratti a Milano con il ticket per entrare in città: anche i giornali di
centro-destra hanno detto che era pazza e i suoi elettori hanno tentennato, poi
i risultati le hanno dato ragione.

Alemanno dica subito ad esempio e se ci crede, che è
necessaria una moratoria sulle feste, sui festival, sulle notti bianche, sugli
eventi e che tutto ciò che si risparmia verrà destinato alla pulizia delle
strade, alla riparazione delle buche, alla lotta contro i graffiti, alla cura
del verde pubblico… Forse all’inizio qualcuno storcerà il naso, dirà che
Alemanno e la destra sono nemici della cultura, ma poi ci si renderà conto che
senza quegli interventi minimi la città non vive e che la cultura, se non è
solo affari e consulenze, si apprezza di più in una città viva e funzionante.
Si dirà che molti degli epifenomeni del veltronismo erano pagati dagli sponsor
privati. Benissimo, vorrà dire che Alemanno chiederà agli sponsor di dirottare
il loro denaro per rimettere in sesto piazza fontana di Trevi, per ricostruire i muretti distrutti di villa Borghese, per riaprire interi settori del
Palatino chiusi da anni per lavori, o qualsiasi altro intervento necessario e
duraturo. Romani e turisti alla fine non se ne lamenteranno.

La ricetta per far rinascere Roma è in effetti semplice da enunciare
e quasi impossibile da realizzare: si tratta di riportare la legalità in tutti
gli aspetti della vita cittadina. Dalle macchine in seconda o terza fila che
infartano la circolazione del traffico, agli ambulanti che trasformano in suk
le più belle piazze; dai furgoni che consegnano le merci ad ogni ora del giorno,
ai grafitari che si accaniscono sulle facciate appena restaurate dei palazzi;
dai clandestini che vivono indisturbati di piccoli e grandi crimini, agli abusi
edilizi; dall’assenteismo di impiegati comunali, vigili, netturbini, all’inadempienza
delle ditte che si occupano di manutenzione… la lista è lunghissima. Ma in quasi
tutti i casi si tratta di far rispettare le leggi e le norme di una città per
troppo tempo distratta, accomodante e illusa di essere qualcos’altro.

La vittoria di Alemanno a Roma è almeno il segno che i
romani hanno aperto gli occhi sulla loro città. E’ un po’ come in Matrix quando
Morpheus consegna la pillola rossa a Neo e quello d’improvviso si accorge della
realtà che lo circonda: non un’ordinata e funzionante metropoli, ma un cumulo
di fumanti macerie.

Aprire gli occhi è però solo il primo passo per cambiare le
cose. Gli americani hanno un’immagine piuttosto cruda in questi casi: è come il
caso del cane che insegue sempre la macchina che passa: il giorno che la prende
che ci fa? La vera sorpresa sarebbe che si mettesse al volante e dimostrasse di
saperla guidare.