Alemanno si gioca il suo futuro da leader del centrodestra su parentopoli

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Alemanno si gioca il suo futuro da leader del centrodestra su parentopoli

13 Dicembre 2010

Umore nero. In questi giorni fare ironia sullo stato d’animo del sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è sin troppo facile. La ‘parentopoli’ capitolina gli è piombata addosso come una valanga. Proprio quando, tra smentite mai troppo convinte, stava progettando un futuro “grande salto” verso la politica nazionale. Verso la successione al ruolo di leader del centrodestra: ruolo che Alemanno aveva – e nonostante la bufera ancora ha – come obiettivo di medio-lungo respiro.

Gianni, è noto, è uomo di modi risoluti. Semplice immaginare la sua reazione innanzi alle quotidiane bordate che da due settimane gli arrivano addosso. La mattutina rassegna stampa, rito temutissimo da ogni politico, è qualcosa di assai vicino allo strazio. Sfuriate ai suoi collaboratori non ne ha mai risparmiate. Dalla fine di novembre, però, i vari portavoce, addetti stampa e consiglieri hanno dovuto fare il callo a scene che nelle segrete stanze del Campidoglio non si vedevano dai tempi di Veltroni (leggendarie le urla di Walter innanzi ad articoli poco graditi).

Alemanno, al contrario del suo predecessore, però, non ce l’ha con i giornalisti. E’ infuriato con se stesso e, soprattutto, con gli uomini del suo staff. La vicenda ‘Parentopoli’, in effetti, pullula di leggerezze. Troppe le assunzioni effettuate senza la minima cautela. Troppi i figli, nipoti e amici di “gente d’area” entrati nelle aziende municipalizzate nell’arco di due anni. Troppa la superficialità che ha accompagnato la gestione mediatica dello scandalo (ormai si può definire tale). Eppure avvisaglie ne erano arrivate.

A febbraio, agli onori della cronaca era balzato il caso di Stefano Andrini, ex estremista di destra, nominato Ad di Ama Servizi e poi “dimissionato” dopo polemiche roventi. Poteva, doveva essere – così un Alemanno al colmo dell’ira avrebbe urlato in faccia ai collaboratori – un campanello d’allarme. Non bastasse, le prime voci sulla gestione “disinvolta” dell’Atac avevano iniziato a circolare in primavera. Nei corridoi dell’azienda, ovviamente, tutti sapevano tutto. Ed era difficile, ai limiti dell’ingenuità, credere che la vicenda potesse restare taciuta. Per la verità, un timido tentativo di parare il colpo era stato fatto cercando d’allontanare subito l’Ad di Atac, Adalberto Bertucci (noto consulente del lavoro e figlio di Oreste, scomparso qualche anno fa, ex ufficiale di Marina e Repubblichino di Salò, per 30 anni dominus temutissimo dell’Ordine professionale di Roma) rimosso solo dopo l’estate, a frittata già fatta. A lui, anche adesso, molti cercano di addebitare la valanga d’assunzioni “mirate”.

Qualcuna l’avrà pure fatta ma certo, è la tesi che circola tra i dipendenti di lungo corso che negli anni ne hanno viste molte “combinate anche e soprattutto dal centrosinistra”, non è lui il solo responsabile. A crederlo è anche Alemanno che però ora ce l’ha col mondo intero. A cominciare dal suo “mondo”. Quello che gli ha consentito di conquistare il Campidoglio e che in qualche modo ha dovuto tenere presente distribuendo incarichi tra le varie anime della destra romana. Cosa fisiologica che qualunque sindaco (impossibilitato a controllare personalmente ogni dettaglio) può, anzi, deve fare. Peccato, però, che alcuni ne abbiano approfittato. Andando parecchio oltre le “deleghe” soprattutto in un settore politicamente strategico come quello dei trasporti su cui Gianni aveva puntato parecchio dai tempi della campagna elettorale.

Una cosa va detta con chiarezza: la voragine nei conti dell’Atac non è imputabile alla gestione Alemanno. Da anni i bilanci sono inesorabilmente in rosso con perdite di centinaia di milioni all’anno. Nel 2005, ad esempio, la giunta Veltroni ottenne dalla Cassa Depositi e Prestiti un finanziamento di 160 milioni di euro (rimborsabili in 15 anni) per ristrutturare il debito ed acquistare nuovi bus. Parentopoli a parte, il Pdl ha ereditato i trasporti capitolini già esangui. E qualcosa ha cercato di fare. Tanto per cominciare ha sconfessato il modello voluto da Rutelli. Sino al 2009, Roma aveva tre aziende di trasporto: Trambus (solo per i bus ed i tram), Metro (per le due linee del metrò ed alcune ferrovie) e l’Atac (per la progettazione e la gestione). Il che si gnificava altrettanti presidenti, amministratori delegati (pagati nell’ordine delle centinaia di migliaia d’euro l’anno), consiglieri d’amministrazione e capi ufficio stampa (anch’essi con contratti sontuosi ed a tempo indeterminato che il Pdl non ha potuto in nessun modo modificare).

Per farla breve, la giunta Alemanno ha cercato di razionalizzare. Di tre aziende ne ha fatta solo una, l’Atac, tagliando poltrone superflue e costose. Non è stato tutto male e tutto all’insegna dello spreco, insomma. Peccato che le vicende delle ultime settimane stiano cancellando il buono che è stato fatto. E’ per questo che Alemanno è furioso. E, ricordando vecchi motti tipici della destra, ha promesso battaglia.