Alfano fa il pompiere con gli ex An sugli scudi (anche) per la legge elettorale
17 Luglio 2012
Non ci sono né regnanti né sudditi, dice Alfano. Il segretario media per evitare il peggio, difendere l’unità del partito, dissipare dubbi e malumori sulla candidatura a premier del Cav. che se sarà, archivierà le primarie per la premiership. Compito non facile il suo, dopo un’altra giornata carica di tensione non solo per l’idea di un possibile ritorno a Fi ma soprattutto sul sistema elettorale rispetto al quale il Pdl torna a considerare il modello spagnolo. Che significa: stop alle preferenze.
Alfano sceglie la manifestazione all’ombra del Colosseo promossa da Giorgia Meloni e Fabio Rampelli (assente Matteoli indisponibile a piani alternativi al Pdl) per ribadire il concetto e stemperare l’irritazione degli ex An: l’ex ministro della Gioventù, infatti, non digerisce la virata sulle primarie e ricorda che c’è un ufficio di presidenza del partito ad averle ‘consacrate’ con un voto. Se fosse in Berlusconi, lei le pretenderebbe e nel concetto si coglie lo stato d’animo. Lo stesso di una pattuglia di deputati aennini che ieri a Montecitorio si sono riuniti per studiare le ‘contromosse’, non solo in caso di un ipotetico ritorno a Fi (che nonostante le correzioni del Cav. continua a far discutere nei capannelli in Transatlantico) ma soprattutto per l’opzione che il Pdl ha messo sul tavolo del comitato ristretto istituito al Senato al suo primo giro di orizzonte su come cambiare il Porcellum. Opzione, va detto, che non è mai uscita dal ventaglio di proposte che il Pdl porta al confronto con gli altri partiti ma che in questo clima arroventato ha fatto salire sugli scudi chi, come appunto buona parte degli ex An, punta la fiches sulle preferenze nello schema del ritorno al proporzionale. E siccome il modello spagnolo non le contempla, si sta sul ‘chi va là’. Al punto che nella riunione degli aennini si sarebbe ragionato anche sull’iniziativa di una campagna pro-preferenze da lanciare sul territorio, forse con tanto di raccolta di firme.
Ad agitare le acque c’è anche la questione delle primarie. Alfano ribadisce il concetto: “Noi siamo per fare le primarie a tutti i livelli ma nel momento in cui per la premiership c’è la candidatura di Berlusconi penso che si possano serenamente evitare”. Ma Meloni e Alemanno (non i soli per la verità) la pensano all’opposto. Serve un chiarimento, aveva avvertito l’altro giorno il sindaco di Roma e forse oggi potrebbe essere il giorno giusto, perché nell’inner circle berlusconiano non viene esclusa la possibilità che il Cav. si veda col primo cittadino della Capitale (il più critico tra i colonnelli di via della Scrofa) estendendo poi il giro di consultazioni allo stato maggiore ex An.
Sul fronte della legge elettorale, il primo giro di tavolo del comitato ristretto in commissione Affari Costituzionali al Senato, è servito a registrare le migliori opzioni dei partiti. Non poteva che essere così in questa fase, ma il quadro che ne è emerso segnala distanze, almeno sulla carta. Il Pdl tiene nel novero delle possibilità anche il modello spagnolo, il Pd quello francese del doppio turno, l’Idv punta sul al Mattarellum, l’Api sponsorizza il modello tedesco mentre Coesione Nazionale si dice favorevole a una sorta di ‘legge ponte’ in vista di una legislatura costituente. L’iter: dopo il primo round, ai relatori Malan e Bianco spetterà fare una sintesi con l’obiettivo già dichiarato, di arrivare a un testo base col quale andare in Aula.
Se l’opzione ispanica non convince buona parte degli ex An perché non prevede le preferenze, rischia di far fare un passo indietro alle buone possibilità d’intesa che nei giorni scorsi avevano avvicinato Casini e Maroni all’ipotesi lanciata dal Pdl di un proporzionale con preferenze. Va detto che l’ipotesi è ancora tutta in campo, come quella del resto sul semipresidenzialismo che porta con sé il doppio turno e che tra oggi e domani passerà al vaglio (alias voto) dell’Aula di Palazzo Madama.
Tatticismi finalizzati al primo giro di tavolo? Può darsi. Il rischio è che per annusarsi si perda di vista l’orologio. Che segna, inesorabilmente, il trascorrere dei dieci giorni fissati per trovare un’intesa, prima dello scontro in Parlamento. E a maggioranza.