Alla base della libertà economica c’è anche la variabile antropologica
16 Maggio 2007
“Il successo economico necessita della democrazia?”. Si tratta di una domanda cruciale che ricorda la nota disputa che vide protagonisti nel nostro Paese, tra gli altri, Luigi Einaudi e Benedetto Croce su liberismo e liberalismo. La storia del pensiero politico è ricca di argomenti a favore e contro il nesso tra libertà politica (stato di diritto) e libertà economica (mercato), basti pensare alla polemica antistatalista di Luigi Sturzo degli anni ’50. Sturzo vedeva nel progressivo aumento del peso dello stato nell’economia un rischio per la sopravvivenza delle stesse istituzioni democratiche: di qui, rispettivamente, la sua polemica con La Pira e la battaglia contro l’IRI e la politica delle partecipazioni statali.
Lo spunto per tornare sull’argomento ci è offerto da un articolo di Kevin Hassett, direttore del dipartimento economico dell’American Enterprise Institute, apparso sul numero di maggio-giugno del periodico “The American”. Hassett risponde categoricamente alla domanda che, sebbene possa apparire particolarmente triste ammetterlo, bisogna riconoscere che le nazioni politicamente meno libere starebbero sperimentando un prolungato processo di sviluppo economico, almeno se lo si confronta con i tassi di crescita delle nazioni politicamente libere. Per rendere ragione di una realtà problematica difficilmente negabile, Hassett prende in prestito il “teorema dell’impossibilità” del premio Nobel Kenneth Arrow, formulato nel 1951. Il comitato dei Nobel nel 1972 giudicò tale teorema come uno dei maggiori contributi offerti dall’economista americano alla teoria dell’equilibrio e dell’economia del benessere. A distanza di diversi decenni, afferma Hassett, il cosiddetto “teorema di Arrow” può essere considerata l’idea del XX secolo che ha più significativamente anticipato il XXI secolo”.
La descrizione del teorema di Arrow, non in termini matematici, può essere espressa in modo abbastanza semplice: l’apparato governativo è considerato come un meccanismo che pone in essere decisioni collettive per un gran numero di cittadini aventi differenti preferenze. C’è chi chiede che il proprio contributo fiscale finanzi la costruzione di parchi giochi per bambini, chi per i cani, altri vorrebbero che le loro tasse andassero a finanziare l’aumento del numero dei poliziotti nei parchi e così via. Compito del governo è che simili preferenze siano sistematizzate e che il “sistema di voto” delle “preferenze aggregate” funzioni; ovvero che la “funzione di scelta pubblica” trasformi l’insieme delle scelte individuali in un ordinamento globale accettato dalla società. Ricorda Hassett che l’esercizio del voto può essere letto anche come un segnale che milioni di persone inviano al governo circa il modo in cui tradurre la preferenza politica aggregata in scelte di politica-economica. In definitiva, il teorema di Arrow afferma che se il gruppo di cittadini votanti comprende almeno due individui e l’insieme delle alternative possibili comprende almeno tre opzioni, non è possibile costruire una funzione di scelta sociale che soddisfi al contempo tutti i requisiti.
Il segnale che giungerebbe a molti dittatori dei nostri tempi, sostiene Hassett, è che i cittadini desiderano vivere in un’economia prospera; per di più, la storia avrebbe loro insegnato che per raggiungere un simile obiettivo l’economia di mercato rappresenta la via privilegiata. A questo punto, secondo Hassett, Arrow sarebbe riuscito a dimostrare (si tenga conto che il teorema di Arrow è un risultato matematico) l’impossibilità di elaborare un sistema elettorale in grado di eleggere o di dar vita ad un esecutivo che sappia esprimere delle “preferenze razionali”. Sicché, sebbene la democrazia possa apparire a molti come il sistema politico sotto il quale è preferibile vivere, non vi sarebbe alcun elemento teoricamente significativo che provi l’assunto che essa rappresenti la forma di governo che i cittadini esprimono come “preferenza aggregata”. Hassett ne deduce che le democrazie non sarebbero di per sé preferite ad altre forme di governo in quanto strumento per la prosperità economica.
Effettivamente, l’osservazione di Hassett appare particolarmente irrilevante se si considera la seconda metà del XX secolo, durante la quale si è assistito al collasso dell’Unione Sovietica e alla vittoria delle nazioni politicamente ed economicamente libere. Diverso il discorso se guardiamo alla geopolitica di questo primo scorcio del XXI secolo. Dittature come quella cinese (in realtà l’indice di libertà economica elaborato dall’Heritage Foundation nel 2007 posiziona la Cina al 119 posto e la qualifica come una realtà ancora in gran parte illiberale, con una percentuale del 54%) sembrerebbero aver appreso dagli errori delle dittature socialiste del XX secolo, al punto che, mentre non demordono nel perpetuare una sistematica oppressione politica, consentirebbero un’elevata libertà economica, almeno all’interno dei loro confini.
La Fondazione Freedom House pubblica ogni anno l’indice della libertà politica, secondo una scala che va da 1 a 7. Ad esempio, nazioni come gli USA e l’Italia hanno un indice pari a 1 (molto liberi), Singapore 4.5, Cina ed Arabia Saudita 6.5, la Corea del Nord 7. Accanto al lavoro della Freedom House, Hassett considera anche il risultato del Fraser Institute che calcola l’indice della libertà economica, tenendo conto del livello fiscale, delle regolamentazioni, dell’apertura dei mercati e di altri fattori giudicati rilevanti. A tal proposito, Hassett riporta un grafico nel quale si mostra il grado di sviluppo economico di due tipologie di paesi. La prima tipologia comprende paesi indicati come sia politicamente sia economicamente liberi. La seconda, comprende quei paesi considerati dalla Freedom House politicamente repressi, benché economicamente liberi. Per ciascuno dei casi Hassett ha considerato la crescita media del PIL degli ultimi cinque anni. Il grafico mostra che paesi politicamente ed economicamente liberi starebbero sperimentando una crescita economica più bassa rispetto a paesi economicamente liberi, ma politicamente repressi. Basti pensare alla Malesia, il cui PIL è cresciuto mediamente dal 1991 al 1995 del 9.5%, oppure a Singapore il cui PIL è cresciuto mediamente dal 1996 al 2000 del 6.4%; ovvero il caso russo, dove la stessa misura è cresciuta mediamente dal 1996 al 2000 del 6.1%.
Il teorema che ha dominato la filosofia politica degli ultimi vent’anni del XX secolo è stata ispirata dalla prospettiva che, sebbene tra democrazia e libertà economica non ci fosse un legame logico, l’esperienza storica mostrava che paesi politicamente repressi, alla lunga, qualora avessero ampliato i margini della libertà sul fronte economico, sarebbero stati costretti ad allargare le maglie della repressione politica fino ad esplodere o a collassare, in forza della spinta interna proveniente dall’inedita presenza di una classe borghese, imprenditoriale, capitalista.
Questo teorema che ha visto proprio nell’American Enterprise Institute uno dei centri di elaborazione più significativi ed influenti al livello mondiale, oggi sembrerebbe messo in discussione proprio da uno dei suoi massimi ricercatori. Hassett non teme che le democrazie possano essere contagiate dal virus della dittatura, così come si è sempre sperato che le democrazie potessero contaminare con le loro istituzioni liberali proprio quelle dittature.
In teoria, le democrazie non avrebbero nulla da temere, poiché i loro cittadini difficilmente sarebbero disposti a rinunciare a quanto faticosamente hanno conquistato nei secoli. Tuttavia, sostiene Hassett, non è così scontato che rappresentino ancor oggi un modello al quale guardare ed una realtà abbastanza attraente da voler essere imitata.
Non è possibile non tener conto seriamente delle preoccupazioni e delle acute argomentazioni di Hasset, per quanto l’esperienza storica ed una relazione logica non eccessivamente rigida ci inducano a credere che le variabili che condizionano i processi di sviluppo democratico ed economico, se non sono necessariamente concomitanti o deterministicamente conseguenti l’uno all’altro (almeno nel breve periodo), non è escluso che possano sorreggersi a vicenda, a condizione che si consideri un ulteriore elemento: la cultura. Se da un lato non si può determinare meccanicamente l’emergere delle istituzioni democratiche a partire dall’ampliamento della sfera individuale in ambito di libertà economica, d’altro canto non si può più neppure negligere la valenza della variabile culturale: le credenze, i valori, gli stili di vita, la prospettiva antropologica… Quest’ultima variabile, forse ancora inspiegabilmente sottostimata rispetto a quelle economiche ed istituzionali, qualora riuscisse ad incunearsi tra l’armamentario economico e quello politico potrebbe rappresentare un efficace strumento concettuale per spiegare meglio le ragioni delle stesse istituzioni economiche e politiche%2C oltre a contribuire a far emergere le incongruenze di quelle scelte politiche ovvero economiche che interpretano lo sviluppo come un processo di pura ingegneria sociale; un approccio che sistematicamente finisce per escludere ed umiliare il principale fattore di produzione: il capitale umano.