Alla fine scopriremo che Obama non vuole un mondo multipolare

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Alla fine scopriremo che Obama non vuole un mondo multipolare

07 Dicembre 2009

Non più tardi di cinque anni fa era impossibile impostare una seria discussione riguardo il sistema internazionale senza una premessa obbligata sulla superpotenza americana, in grado di fare il bello e il cattivo tempo su tutto il pianeta. Oggi, la semplificazione avviene in senso contrario. È diventato luogo comune credere che gli Stati Uniti siano in declino, con il Presidente Obama a rappresentare un’America che accetta di buon grado il fatto di vivere in un mondo multipolare. Tuttavia, questa è un’ipotesi quantomeno discutibile. Se il mondo è diventato multipolare, lo è comunque in maniera molto imperfetta e la diplomazia americana ha tutto l’interesse a conservarne l’imperfezione.

Il potere è oggi espresso da tre asset: il benessere economico, senza cui nulla è tecnicamente possibile (l’implosione dell’Unione Sovietica è un caso di scuola); il potere strategico, che implica la capacità di proiettare la forza oltre il campo avversario; ed infine quello che potrebbe essere chiamato il "potere dell’istinto", cioè a dire la volontà di pesare sulla scena internazionale. Quest’ultimo asset può prendere la forma delle idee, delle capacità o della forza attrattiva.

L’evoluzione nelle relazioni di potere è più palpabile nella sua forma materiale, anche se, contrariamente al pensiero comune, il passaggio di potere da Occidente a Oriente è stato un processo relativamente lento. Ci sono adesso quattro grandi centri di potere economico: gli Stati Uniti, l’Europa, la Cina ed il Giappone. Questi sono seguiti a debita distanza da India, Brasile e Russia. È importante notare, ad esempio, che il prodotto interno lordo della Russia incide solo per dell’1 percento sul prodotto interno globale, contro una quota del 22 percento per gli Stati Uniti. Ciò significa che il cammino verso la multipolarità economica è ancora molto lungo, poiché questa si manifesta quando il potere detenuto dai vari centri economici è pressoché equivalente. Dal punto di vista strategico, lo squilibrio è ancor più manifesto: esiste una sola superpotenza militare che surclassa nettamente tutte le altre (gli Stati Uniti); una potenza emergente (la Cina); una potenza che vive del suo passato e che può mantenere il suo status solo grazie alle risorse energetiche (la Russia); una pletora di medie potenze che dispongono di una capacità militare molto modesta.

Non esiste nessun tipo di evidenza che provi un processo in atto verso la multipolarità strategica: a parte la Cina, che possiede sia la volontà che i mezzi, e la Russia, la quale ha la volontà ma non necessariamente i mezzi, non è ancora emersa una aspirante potenza globale. India e Brasile si stanno senz’altro rafforzando in termini militari, ma per il prossimo futuro le loro ambizioni strategiche rimarranno confinate a livello regionale. Per di più, l’ascesa di Pechino potrebbe aumentare la dipendenza strategica del Giappone dagli USA, malgrado qualche screzio nel breve periodo nelle relazioni nippo-americane. Lo stesso paradigma si applica all’Europa nei confronti dei suoi rapporti con la Russia. L’Europa è la sola regione nel mondo che rifiuta di aumentare le spese militari, quasi gli europei avessero deciso una volta per tutte di appaltare la propria difesa agli USA. Il Trattato di Lisbona non cambia nulla su questo tema. I tentativi plurimi di creare un’industria della difesa europea hanno incontrato una ferrea opposizione, mettendo in rilievo le infinite debolezze della potenza europea.

Riguardo al potere dell’istinto, mentre molti Stati lo posseggono, non molti dispongono dei mezzi per realizzare le loro ambizioni. Mosca detiene un importante arsenale militare, ma il potere non si esaurisce con l’esibizione della forza. La Russia è caratterizzata dall’assenza di attrattività per quasi tutti gli Stati del mondo, eccezion fatta per i regimi ai ferri corti con l’Occidente. Nel frattempo, l’Europa sbatte contro la realtà del non essere un’entità statale. L’unica influenza che esercita è normativa, la capacità di formare il mondo attraverso la diffusione di norme ai fini della regolazione globale: finanza, ambiente, sicurezza alimentare, e così via. Ciò non è di certo irrilevante, ma non può comunque compensare la mancanza del potere strategico.

Ad ogni modo, è chiaro perché gli USA non abbraccino la retorica del mondo multipolare che li metterebbe sullo stesso piano degli altri preminenti attori globali. Non c’è alcun motivo per il quale Washington debba accettare una riconfigurazione del sistema internazionale quando continua a detenere un apprezzabile vantaggio sui competitors in tutti e tre gli asset di riferimento. È perciò ragionevole sentire l’Amministrazione Obama parlare in termini di partenariato e non di multipolarità. Gli Stati Uniti non capiscono che non possono continuare a dominare il globo a loro piacimento, causa il crollo del gap che li separava dal resto del mondo. Di conseguenza, gli USA hanno bisogno che il resto del mondo li aiuti a preservare la loro posizione, non a dissolverla. L’obiettivo è selezionare partner sull’arena internazionale per meglio mantenere la leadership in tutti i campi.

Il mondo condivide tre agende globali: l’agenda strategica, che continua ad essere dominata saldamente dagli americani; l’agenda economica, maggiormente distribuita; l’agenda climatica, dove gli Stati Uniti giocano palesemente sulla difensiva. L’Amministrazione Obama sta cercando di guidare il gioco concedendo spazio ad altri attori, ma allo stesso tempo cercando di evitare o il formarsi di una coalizione anti-americana o l’emergere di un competitor che potrebbe rimpiazzare, nel tempo, Washington. Certamente, la struttura dell’ordinamento internazionale è in continuo divenire e la volontà americana da sola non basta per garantirle la supremazia. Sarebbe tuttavia un errore sottostimare l’influenza statunitense, dopo averla soprastimata per molti anni. Ma un errore ancora più grande consisterebbe nel sentenziare che gli Stati Uniti hanno abbandonato la scommessa di rimanere i burattinai del mondo. 

Tratto da Financial Times

Traduzione di Emanuele Schibotto