Alla ricerca del cibo perduto

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Alla ricerca del cibo perduto

Alla ricerca del cibo perduto

17 Febbraio 2008

“Non mangiare nulla che non sembrerebbe cibo agli
occhi di tua nonna”. A dimostrazione delle dimensioni che il fenomeno
della nutrizione ha assunto negli Stati Uniti, il giornalista del New York Times Michael Pollan, autore di
una lunga inchiesta in forma di trilogia alla ricerca del cibo perduto, è
diventato una vera celebrità e i suoi libri hanno dominato a lungo le
classifiche americane (queste ultime settimane lo danno senza rivali in cima
alle hit-parade della saggistica).  Due
anni fa in The Omnivore’s Dilemma si
interrogava sul perché il cibo nel suo paese fosse ormai diventato un
“paradosso americano”; per cui una intera nazione nota per i suoi consumi
alimentari generalmente tutt’altro che genuini fosse ormai costantemente
ossessionata dall’idea di “mangiare sano”, e quindi in balia degli scienziati
dell’alimentazione e del marketing dell’industria alimentare.  Così pressata dalle sollecitazioni di tanta
varietà di opzioni gastronomiche (di qui il dilemma) da aver perso del tutto la
bussola e la garanzia di cosa porta alla bocca.

Percorreva l’America in lungo e in largo per
seguire il percorso del chicco di mais, che dopo una serie di trasformazioni
complesse e sconosciute ai più finisce sul vassoietto del McDonald’s in un
Chicken McNugget (perché nel frattempo, analizzando il gustoso polletto fritto,
era riuscito a contare quasi quaranta ingredienti, di cui almeno tredici
derivanti dall’onnipresente grano..) dimostrando che in media quel
tortuosissimo percorso è di 2500 chilometri. Andava a verificare la reale
origine del cibo biologico e il curioso destino che man mano ha subito,
perdendo l’innocenza iniziale in favore della massificazione di un business
sempre più redditizio – e sempre meno controllabile. Il tono, temperato dal
buon senso comune e da giusto un accenno di populismo, era funzionale alla
riflessione e soprattutto alla riscoperta della semplicità del cibo, nonché
alla liberazione ragionata dai condizionamenti che sono riusciti a imporsi sui
consumatori negli ultimi venti anni, in nome del controllo ossessivo delle
calorie e dei grassi. “Nella cosiddetta dieta occidentale, il cibo è stato
sostituito dalle sostanze nutritive, e il buon senso dalla confusione”.

A quanto pare la domanda rivoltagli più spesso dal
pubblico dopo la rispettosa lettura del libro che ne ha fatto una star, era:
“ok, tutto giusto e condiviso – ma allora che dovremmo mangiare ?”. Ed eccolo
cercare di dare risposte nel nuovo In
defense for Food. An Eater’s Manifesto
(Penguin Press HC, 256 pagine, 21.95
dollari), raccolta di comandamenti per seguire non solo la gola ma anche il
cervello. Riassunti nel suo imperativo per il consumatore contemporaneo:  “Mangia il cibo. Non in quantità esagerate.
Soprattutto vegetali.” Dove l’esortazione a nutrirsi sta per il ritorno al
controllo individuale sulla propria alimentazione.

Al consumatore la cui unica richiesta è mangiare
in maniera sana va ricordato anzitutto di mettersi a cucinare;
e magari piantare qualcosa in giardino, se si ha la fortuna di possederlo.
Perché già dimostrare ai suoi connazionali come non cedere alle patatine light
bensì mangiare un’insalata preparata a casa, in patria gli garantisce solida
fortuna. Dispensando consigli in sé banali e un po’ triti, se tira in ballo le
abitudini gaudenti ma in dosi minime e quindi corrette dei francesi, il valore
di un buon bicchiere di vino e il bando per gli snack fuori pasto.

Il fatto è che Pollan è fortemente politico: prima
ancora della sua personale e convincente campagna contro le manipolazioni e
l’artificialità dell’alimentazione, e la sua fede quasi religiosa nel buon cibo
naturale, conduce una battaglia ideologica contro il suo presunto nemico
primario, il nutrizionismo. Una sorta di ondivaga pseudo-scienza, funzionale
alla creazione continua di nuovi prodotti alimentari, addizionati,
“fortificati”, spesso secondo ricerche senza guida. Ma “L’industria alimentare
ha bisogno di teorie così da poter produrre linee nuove di prodotti lavorati;
ed è l’industria a continuare ad alterare la dieta occidentale invece di
intervenire sul proprio modello di business”.

I suoi libri sono interessanti e utili in realtà,
quando invece di passare all’azione con i consigli da manuale di un qualsiasi
dietologo mediatico, o di dirci di installare in casa un freezer grande
abbastanza da contenere i pezzi di un maiale ucciso e preparato da soli (per
non parlare della fissazione di evitare come la peste i supermercati?) – va a
passare qualche settimana con un grande coltivatore dell’Iowa e si fa spiegare
in ogni dettaglio come funziona il complesso business agricolo americano.

Lo è già meno quando recupera qualche studio
funzionale alla nostra  conversione al
recupero della salute. Come quello, datato 1982, con cui apre la sezione “La
dieta occidentale e le malattie della civiltà”: un gruppo di aborigeni, passati
al nostro cibo dopo aver lasciato la foresta, svilupparono rapidamente diabete
di tipo alimentare prima di essere restituiti al loro regime salutare, e vedere
ridotte le alterazioni.  Ma l’America ha
bisogno di Pollan, per cui lasciamolo continuare le sue crociate. Innocue, dopo
tutto.