Alla ricerca del partito che non c’è (ma speriamo ci sarà)

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Alla ricerca del partito che non c’è (ma speriamo ci sarà)

Alla ricerca del partito che non c’è (ma speriamo ci sarà)

28 Aprile 2008

A
questo punto, indipendentemente da come finirà oggi a Roma, è chiaro
che per trasformare il risultato delle politiche da grande occasione a
svolta storica, il centro-destra dovrà muovere contemporaneamente su
tre terreni: il governo, la riforma del sistema e il partito.

Del
governo si parla anche troppo. Per la verità più dei nomi dei possibili
ministri, che non degli effettivi nodi che si nascondono dietro di
essi. Della riforma del sistema, da tutti auspicata a parole, qualcosa
si potrà dire solo dopo i ballottaggi. Quando, gettatosi alle spalle il
tempo della propaganda, si capirà se Veltroni vorrà tornare a
privilegiare la strada della reciproca legittimazione o preferirà
attardarsi a enfatizzare il rischio democratico, come ha fatto con la
lettera sui fondamenti della Repubblica, con le interviste post-voto e
persino con alcune ridicole dichiarazioni sul 25 aprile.

Si
parla invece poco – e purtroppo male – dell’oggetto a proposito del
quale esisterebbero tutti i termini per imbastire una discussione
seria: il partito. Cioè quello che, secondo quanto dichiarato dallo
stesso Berlusconi, dovrebbe essere il lascito più duraturo della sua
permanenza nell’arena pubblica.

Se ne parla poco, perché se
la scommessa sul grande partito dei moderati non sarà vinta, quanto è
accaduto nelle ultime elezioni inevitabilmente scadrà al livello di
espediente provvisorio, pronto a disperdersi nei mille rivoli di una
nuova frammentazione.

Se ne parla male, perché quei pochi
che affrontano il tema lo fanno, per lo più, contrapponendo un “partito
liquido” – privo di scheletro organizzativo e affidato alle virtù della
leadership – a “un partito macchina” che dovrebbe ricalcare i vecchi
modelli novecenteschi. Il “partito liquido” è la metafora di Forza
Italia, il partito-macchina è Alleanza nazionale, come si evince dalla
lettura dell’articolo di Flavia Perina pubblicato sul Secolo d’Italia
il 24 aprile scorso.

In questi termini, il dibattito
risulta “cieco” sin dalle premesse. Perché la convivenza tra leader
carismatico e struttura, legati da un rapporto di scambio e di
reciproca necessità, è una realtà di tutte le moderne democrazie ed è
l’elemento che più di ogni altro le differenzia dai regimi
plebiscitari. E anche perché sbaglia di grosso chi continua a ritenere
che in questi anni Forza Italia sia stato solo un “partito liquido”,
mera espressione della forza carismatica del suo capo. Questo errore è
stato commesso da quanti – avversari e ancor più alleati – hanno
valutato il “berlusconismo” come un fenomeno passeggero. Sarebbe grave
che tale errore di prospettiva fosse ora condiviso da chi si appresta,
con Forza Italia, a costruire il grande partito dei moderati. Non si
terrebbe conto, tra l’altro, della realtà di questi anni che ha visto
Forza Italia costruire uno “zoccolo duro” dell’anticomunismo
esistenziale in modo anche più intenso – in termini di comunicazione e
fedeltà dell’elettorato – di quanto ha saputo fare Alleanza Nazionale.

Se
dalla pratica politica ci spostiamo sul piano della teoria, si apprezza
ancor di più quanto la forma del partito azzurro sia moderna rispetto
ai partiti del Novecento. Quando Forza Italia ha deciso di superare la
fase del movimento, ha implicitamente deciso di distinguere tra la
partitocrazia e i compiti fisiologici dei partiti nella democrazia
rappresentativa. Una cosa infatti è pretendere d’essere fulcro del
sistema politico, altro è assolvere a funzioni vitali per l’esistenza
di un sistema rappresentativo. Insomma, una volta che il partito cessa
di essere strumento che forza la realtà per scopi ideologici e
riconosce l’autonomia della società, delle sue libere espressioni e dei
corpi intermedi, esso si disfa anche dei panni del nemico del
liberalismo, per indossare quelli più miti – ma assai più utili – dello
strumento di formazione, selezione e promozione della classe politica,
nonché cinghia di trasmissione tra il leader e il territorio.

Istituzionalizzare
queste funzioni non doveva e non poteva essere compito di Silvio
Berlusconi. Il carisma che è alle origini di un movimento ha la
funzione di creare uno spazio disponibile a chi vuole, può e riesce a
riempirlo di contenuti. Sta ai suoi seguaci far sì che quello spazio
non si chiuda con l’esaurirsi dell’esperienza del fondatore. Berlusconi
ha fatto tanto, persino troppo. Perché a modo suo ha ricercato
attivamente questa trasformazione: non con i trattati teorici, ma con
atti concreti e – come deve essere per un leader – qualche volta con
delle necessarie forzature.

Fin qui, dunque, ha funzionato
il carisma. Verrà il tempo nel quale emergerà una classe politica che
lo istituzionalizzerà, regolando attraverso leggi e consuetudini ciò
che fino a questo punto è stato realizzato grazie a una vicenda
biografica eccezionale al punto da non poter avere un’eredità dello
stesso tipo. Sarà certamente una stagione diversa e sarà politicamente
necessaria per dare continuità a un ciclo politico irripetibile.