Alla ricerca dell’Occidente perduto. Il meglio di Mark Steyn

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Alla ricerca dell’Occidente perduto. Il meglio di Mark Steyn

19 Agosto 2010

Nel Giorno della Memoria 2008, un gruppo di poco meno di 100 persone di Londra, ha fatto una visita guidata all’interno del vecchio ghetto ebraico nell’East End. Hanno visitato, tra gli altri siti di interesse, il luogo di nascita del mio vecchio compagno Lionel Bart, l’autore di Oliver! . Tre generazioni di scolari sono cresciuti cantando la canzone di Bart: “Considerati a casa, Considerati uno di famiglia!”. Quegli ebrei londinesi hanno provato a sentirsi come se fossero a casa. Ma, in realtà, non lo erano. Non più. Infatti il tour è stato improvvisamente interrotto, quando giovani di origine mediorientale gli hanno iniziato a scagliare pietre contro. "Se proseguite, morirete" gridavano mentre continuavano a gettare sassi.

Un newyorkese, appena trasferitosi in Gran Bretagna per iniziare un lavoro presso la Metropolitan University, è stato ferito alla testa e ha dovuto essere trasportata al Royal London Hospital a Whitechapel, perdendo anche la funzione interconfessionale alla Sinagoga dell’East London per la Giornata in memoria delle vittime dell’Olocausto. Anche il suo amico Eric Litwack dal Canada è stato colpito ma la ferita non era grave e non necessitava di punti. Non è stato un grosso caso per la stampa: d’altronde nessuno è stato ucciso o sfigurato in modo permanente. Forse la polizia di Sua Maestà aveva ragione a dire che il tour avrebbe dovuto essere accompagnato da una scorta.

Ebrei lapidati durante la giornata europea della memoria. Sembra quasi una parodia di una vecchia battuta:“i tedeschi non potranno mai perdonare gli ebrei per Auschwitz”. Secondo un sondaggio del 2005 dell’Università di Bielefeld, il 62 per cento dei tedeschi "sono stanchi di ricevere tutte queste critiche riguardo ai crimini nazisti contro gli ebrei”. Tuttavia, quando si tratta di criticare, in questi giorni sono proprio gli ebrei che subiscono la maggior parte delle critiche. Un paio di anni fa, durante la “sproporzionata" incursione di Israele in Libano, ecco cosa mi ha ricordato un lettore: “Un giorno il Segretario generale dell’Onu propose che, nell’interesse della pace e l’armonia mondiale, i giocatori di calcio di tutto il mondo si riunissero e formassero una squadra di calcio delle Nazioni Unite. "Grande idea", rispose il suo vice. "Ma contro chi giocherà?". Replicò: "Israele, naturalmente". Ci fu una grande risata.

"Israele è fuori moda", ecco cosa mi disse uno ministro degli esteri europei circa un decennio fa. "Quando Israele cambierà, anche la moda cambierà." Le mode infatti cambiano. Ma anche se Israele cambierà, non diverrà mai “di moda”. Infatti l’opinione della maggior parte degli europei dal 1970 in poi è contro Israele. Questo perché Israele non è più vista come perdente, ma come vincente. Perché allora rispolverare le colpe dell’Olocausto? Va bene. Le mode cambiano. Ma il nuovo antisemitismo non è una moda, è semplicemente una cruda realtà che diverrà una metastasi nei prossimi anni e lascerà Israele isolato a livello internazionale.

Pochi mesi dopo il tour che vi ho appena raccontato, mi trovavo a Tower Hamlets, per la prima volta dopo anni. A Cable Street mi sovvenne la scena di un famoso scontro nel 1936, quando Sir Oswald Mosley dell’Unione britannica dei fascisti, in un esercizio di politica repressiva, voleva marciare all’interno del ghetto ebraico di Londra. Vennero  respinti da una folla di ebrei, di cattolici irlandesi e di comunisti, che intonavano lo slogan della guerra civile spagnola: "No pasarán".

Da "No pasarán" a "Se proseguite, morirete". Non è solo antisemitismo ma è la storia di una trasformazione demografica senza precedenti. Oltre la moda "anti-sionista" della sinistra europea c’è una dura realtà: l’energia demografica non solo nell’East End, ma in ogni paese dell’Europa occidentale pende verso i musulmani. Una recente indagine statistica  del governo inglese riporta che nel Regno Unito la popolazione musulmana aumenta dieci volte più velocemente rispetto alla popolazione generale. Amsterdam, Rotterdam, Anversa, e molte altre città europee, dalla Scandinavia alla Costa Azzurra, raggiungeranno la maggioranza islamica nel corso dei prossimi anni.

Bruxelles ha un sindaco socialista, ma il suo elettorato è a maggioranza islamica, il che potrebbe sorprendere chi ancora pensa che sia un fenomeno che procede lentamente. Brutte notizie per la cristianità, all’alba del Terzo millennio: il partito al governo della capitale dell’Unione europea è a maggioranza islamica.

Ci sono generalmente due risposte a questa tendenza: la prima è che cambiano gli attori ma lo spettacolo rimane invariato. La Francia rimane la Francia, la Germania rimane  la Germania, il Belgio rimane il Belgio. La seconda risposta è che l’islamizzazione dell’ Europa comporta determinate conseguenze e, forse, vale la pena esaminare quali possono essere. Ci sono già molti punti di attrito culturale: dall’abolizione nelle banche britanniche dei salvadanai dati ai bambini a forma di maiale, al divieto di consumare ciambelle per la polizia di Bruxelles durante il Ramadan.

Oltre a ciò, un famoso sondaggio di un paio di anni fa, rivela che il 59 per cento dei cittadini europei guardano ad Israele come la più grande minaccia alla pace nel mondo. Cinquantanove per cento? E gli altri? Nessun problema: in Germania, erano il 65 per cento, in Austria il 69 per cento e nei Paesi Bassi il 74 per cento. Col puro scopo di confrontare i dati statistici, in un recente sondaggio in Egitto, Giordania, Marocco, Libano, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti (vale a dire, il mondo arabo moderato) il 79 per cento degli intervistati guarda ad Israele come la più grande minaccia per la pace nel mondo. Per quanto ne so in Europa il sondaggio non è stato ripetuto: magari ora la percentuale e è più alta in Olanda che in Yemen.

Però c’è ancora qualche speranza: sulla scia degli attenti del 7 luglio, l’allora sindaco di Londra Ken Livingstone venne criticato perchè cercò di spiegare il motivo per cui gli autobus che esplodono a Tel Aviv sono assolutamente legittimi, mentre a Bloomsbury no. Questi sono solo piccoli ostacoli in una strada totalmente in discesa: più cresce la popolazione musulmana in Europa, più diviene irrequieta e con sempre maggiore entusiasmo l’establishment abbraccia "l’anti-sionismo". Come se l’ebraismo fosse l’ultima vergine rimasta da sacrificare nel vulcano.

Per gli ebrei di oggi, a differenza di quelli a Cable Street nel 1936, non vi sono cattolici irlandesi o comunisti con cui stare spalla a spalla. Nella Europa post-cristiana la sinistra intellettuale ed alcuni cattolici sono più ferventi  nel loro sostegno ad Hamas che molti abitanti di Gaza. Alcuni israeliani avrebbero replicato a questi fenomeni con un “E allora? E’ un peccato per i poveri ebrei che hanno sempre contato sugli ‘amici’ europei!”. C’è una bella differenza tra un snobismo da salotto riguardo a "l’apartheid israeliano" e una psicosi di massa contro Israele che si può percepire ovunque.

Un altro esempio: i bizzarri fatti accaduti durante le partite del primo turno di Coppa Davis in Svezia. Era previsto che si sarebbero giocate allo stadio Baltiska Hallen di Malmo. Israele era l’avversario della Svezia. Però Malmö è la città della Svezia con più musulmani, e per questo evento la municipalità ha ordinato di giocare a porte chiuse tutti e tre i giorni, per motivi di sicurezza. Immaginate essere Amir Hadad e Andy Ram, giocatori israeliani del doppio, oppure gli svedesi Simon Aspelin e Robert Lindstedt. Questo doveva essere il loro grande giorno. Ma invece lo stadio era vuoto, fatta eccezione per alcuni cronisti sportivi e i compagni di squadra. E appena fuori lo stadio 10.000 manifestanti cantavano, "Fermate la partita!". E forse, in mezzo alla moltitudine, qualcuno urlava anche, "Vogliamo uccidere ogni ebreo in tutto il mondo" (come i manifestanti di Copenaghen poche settimane prima).

Forse Aspelin e Lindstedt si sono chiesti perché non sono stati sorteggiati contro una squadra meno controversa, come lo Zimbabwe o il Sudan? Alla fine è stata una bella partita, avvincente e piacevole, con molta sportività da entrambe le parti. Anche la folla avrebbe potuto godere di questo splendido spettacolo e i giornali magari avrebbero scritto che alla fine della partita gli stessi giocatori israeliani si sarebbero presi l’applauso meritato del pubblico.

Vi ricordate il summit della "road map" tenutosi in Giordania subito dopo l’invasione degli Stati Uniti in Iraq? Sembrava essere una cosa molto importante a quel tempo, con i governatori israeliani e l’autorità palestinese, il presidente degli Stati Uniti, e tutti i principali dittatori della Lega araba. All’interno dello splendido resort, sembrava essere tutto molto collegiale, con tutti quei sorrisi e le strette di mano. Fuori, le bandiere sventolavano: c’era quella giordana, quella americana,  quella dell’Arabia Saudita, quella egiziana e quella palestinese. Ma non quella di Israele. Il Re Abdullah di Giordania liquidò il fatto dicendo che sarebbe stato provocatorio che “la stella di David” sventolasse in suolo giordano anche durante un summit in cui tutti erano sullo stesso piano.

Anche la partita di tennis di Malmo ha osservato le stesse regole: una sottile intransigenza propria dell’islam che pian piano permea anche nel resto del mondo. Se i governi occidentali saranno restii come il re Abdullah a sventolare la bandiera di Israele, allora anche chi tra i cittadini sceglierà di farlo si troverà in difficoltà.

In Gran Bretagna, nel mese di gennaio, mentre ai manifestanti pro-palestinesi è stato permesso di vestirsi come “ebrei che bevevano il sangue dei bambini arabi”, la polizia ha ordinato ai manifestanti di riporre le bandiere israeliane.

In Alberta, nel cuore del quartiere ebraico di Calgary, la bandiera di Hezbollah (organizzazione terroristica) veniva fieramente sventolata da alcuni dimostranti, mentre esporre una sola bandiera israeliana era considerata una minaccia. La polizia obbligò i cittadini che lo facevano a metterla via, pena l’arresto per incitamento al disordine pubblico per chi non avesse obbedito.

In Germania, uno studente di Duisburg ha messo la bandiera di Israele fuori dalla finestra del suo appartamento durante la marcia di un gruppo islamico chiamato Milli Görüs: come risposta la polizia ha buttato giù la porta e rimosso la bandiera. Lo studente adesso sta cercando di ottenere il rimborso dalla polizia per una nuova porta.  Ah, gli ebrei… E’ sempre una questione di soldi, non è così?

Peter, lo studente di Duisburg, ha dichiarato che ha esposto la bandiera israeliana perché in Europa oggi l’antisemitismo è forte come non mai dalla Seconda Guerra Mondiale. Questa è una verità. Ma, se si guarda la cosa dal punto di vista delle autorità, non è solo odio per gli ebrei, ma solo una questione di numeri. Se solo pochi ebrei si ribellano non è un grosso problema. Mentre se a farlo è la maggior parte della popolazione musulmana (e in alcune città francesi, i giovani sono già oltre il 50 %) è una grave minaccia per l’ordine pubblico. Siamo oltre l’anti-semitismo e in pieno utilitarismo: l’approccio del re Abdullah non è altro che una delicata maniera per evitare problemi.

Un sabato pomeriggio di un paio di settimane fa, un gruppo di persone che indossava t-shirt con su scritto "BOICOTTA ISRAELE" sono entrate in una filiale francese di Carrefour, la più grande catena di supermercati mondiale, e ovviamente si sono fatti notare. Il loro scopo era di passare sistematicamente in rassegna tutti gli scaffali esaminando ogni prodotto, portando via quelli fabbricati in Israele per poi distruggerli. A giudicare dal video, i manifestanti erano soprattutto immigrati musulmani e francesi di sinistra. Il dato ancora più rilevante è stata la passività di tutte le altri persone nel negozio, sia il personale sia gli acquirenti, che si nascondevano mentre una proprietà privata veniva saccheggiata e distrutta. Alcuni di loro hanno addirittura espresso il proprio sostegno per quest’atto.

Si potrebbe fare un paragone con la Germania degli anni ’30. "Non è la maggioranza silenziosa che conduce i giochi, ma una minoranza molto rumorosa", ha scritto di recente l’intellettuale canadese George Jonas. "Non importa quanti siano, importano solo i decibel. Qualsiasi entità (gli Stati Uniti, il mondo occidentale, e anche le strade arabe) ha un proprio spirito, ed è questo che aggrega le persone.

Lo scorso dicembre, durante l’attacco terroristico nelle strade di Bombay, i terroristi pakistani hanno anche trovato il tempo per torturare ed uccidere un gruppo di ebrei che erano in città per fare opere di carità. Se l’attentato era causato dalla disputa territoriale del Kashmir, perché uccidere l’unico rabbino a Bombay? Perché l’Islam in Pakistan è stato in qualche modo arabizzato. Demograficamente in Europa e altrove, l’Islam ha grandi numeri. Ma ideologicamente, l’Islam radicale ha più di ogni altra cosa i decibel. Questo vale  sia in Turchia, sia nei Balcani e anche in Europa occidentale.

L’umore prevalente in gran parte del mondo rende Israele un agnello sacrificale. Molto prima che i musulmani diventassero una maggioranza statistica c’erano tre membri permanenti del Consiglio di Sicurezza (Gran Bretagna, Francia, Russia) per i quali assecondare l’Islam era un imperativo politico.

A seguito dell’inserimento della sharia all’interno della legge britannica, l’arcivescovo di Canterbury venne intervistato dal Muslim News, lodando l’Islam per "il contributo molto importante apportato al dibattito sul tema della religione nella vita pubblica". Questo è uno modo di vedere le cose. Ma il vedere solo il lato positivo della propria ritirata culturale è un fenomeno destinato a intensificarsi: una volta che gli europei avranno definitivamente accettato il biculturalismo (anche se non completamente in modo volontario), non capiranno più perchè Israele non debba fare lo stesso, e spingeranno per una soluzione unica: un solo stato per il territorio che va dalla Giordania al Mediterraneo.

Il mondo musulmano ci ha messo dei decenni insistendo sul concetto che la causa per cui una vasta regione ricca di petrolio, che si estende per migliaia di chilometri, ed è politicamente devastata e impantanata nella psicosi, non è nient’altro che una piccola striscia di terra un po’ più grande del New Hampshire. E se si continua così Israele sarà il  capro espiatorio per problemi di un territorio molto più vasto, dall’Irlanda agli Urali.

Nei giorni dopo l’11 settembre questo approccio si era un po’ ridotto. A quel tempo Richard Ingrams scrisse al London Observer: "Chi avrà il coraggio di condannare Israele?". Poco tempo dopo – la polvere non si era ancora sedimentata dopo gli attentati di Londra – un lettore, Derrick Green, mi inviò una e-mail di congratulazioni: "Scommetto che per voi ebrei è come se fosse arrivato il Natale in anticipo, giusto? A causa di tutto ciò avrete più successo di prima mentre invece il popolo britannico sarà trascinato in più guerre di Israele stesso ". E’ andata proprio così. Gli inglesi, gli europei, e anche le truppe americane si stanno lentamente ritirando dall’Iraq e lo faranno dall’Afghanistan, e nonostante siano esplose altre bombe a Madrid, Amburgo e a Manchester, l’unico problema sarà sempre la "sproporzione" di Israele.

Se le cose continueranno in questo modo, gli ebrei europei migreranno, così come per gli ebrei francesi in Quebec o in Florida. Ci sono circa 150.000 gli ebrei a Londra (è la tredicesima città per numero di ebrei al mondo). Ma ci sono anche  circa un milione di musulmani. Il più alto numero di ebrei è compreso nella fascia di età compresa tra 50 e 54; il più alto numero di musulmani si trova nella categoria “inferiore ai quattro anni”. Entro il 2025, ci saranno solo ebrei in Israele o in America, non in molti altri luoghi del pianeta. La legittimità di uno Stato ebraico è stata respinta,  e anche la diaspora ebraica (ovvero la presenza ebraica in tutto il mondo) si sta affievolendo. E parafrasando le parole di Ingrams Richard : “chi non avrà il coraggio di condannare Israele?”.

Magari ci sarà ancora un giorno della memoria, solo per criticare i neonazisti. Nel 2005 Anthony Lipmann, figlio di un’anglicana sopravvissuta ad Auschwitz, scrisse: "Quando il 27 gennaio ho letto sul  braccio di  madre numero A-25466, non ho pensato solo agli orrori delle cremazioni e dei carri bestiame, ma al Darfur, al Ruanda, allo Zimbabwe, a Jenin e a Fallujah." Jenin? E per questo che la giornata in memoria delle vittime dell’Olocausto è sul calendario: in un’epoca in cui i politici sono indifferenti o addirittura ostili al "diritto di esistere" di Israele, torna utile poter dire: " Alcuni dei migliori scatti ritraggono ebrei".

In una famosa battuta si diceva che la Palestina era due volte la terra promessa. Non si può dire lo stesso dell’Europa? E della Russia e del Canada? Due culture che si scontrano nello stesso pezzo di territorio. Non molto tempo fa, guardavo un filmato sulla protesta "pro-palestinese" avvenuto nel centro di Londra: la polizia metropolitana si era ritirata fino a St. James’s Street da Piccadilly  e una folla urlante gridava “Correte,correte codardi! Allahu Akbar! " Alla fine anche i sostenitori del multiculturalismo progressista capiranno: non si tratta di Gaza, non si tratta del Medio Oriente; si tratta proprio di loro. Potrebbe essere di consolazione per Israele sapere che nel prossimo futuro, in Europa, i nuovi ebrei saranno proprio gli europei. 

Mark Steyn è autore di America Alone e redattore per National Review.

Tratto da National Review

Traduzione di Jacopo Mogicato