Allarme “Tunisami”: cosa fanno le organizzazioni internazionali?

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Allarme “Tunisami”: cosa fanno le organizzazioni internazionali?

11 Febbraio 2011

Avrebbe fatto i salti di gioia il popolo viola-di-rabbia, antagonista-disobbediente, no-global e forcaiolo-pseudodemocratico se avesse saputo all’inizio dell’anno che entro un mese un leader mediterraneo il cui cognome inizia con “Be” e finisce con “i” sarebbe stato costretto alla fuga all’estero dalle proteste di piazza. E invece si trattava di Ben Ali.

Il “Tunisami” (ondata anomala geopolitica mediterranea) che ha esautorato Ben Ali e fa tremare una dozzina di altri dittatori ha fatto capire all’Occidente che i cosiddetti “regimi arabi moderati” sostenuti per decenni in funzione anti-fondamentalista erano in realtà dispotici e corrotti. Ora l’Occidente, in termini di singoli paesi e di organizzazioni internazionali, si trova di fronte al dilemma: continuare a sostenere quei regimi impopolari rischiando che vengano travolti comunque oppure scaricarli, rischiando che la transizione favorisca l’Islam radicale in formato Fratelli Musulmani o Al Qaeda?

I precedenti storici che riguardano grandi movimenti popolari sulle piazze del mondo arabo e musulmano sono poco incoraggianti. Alla fine degli anni Settanta la gente iraniana riempì le piazze chiedendo libertà e oggi si ritrova governata da una teocrazia islamica. Le moltitudini libanesi che si riversarono in strada a più riprese chiedendo democrazia oggi si ritrovano governate da Hezbollah. Il popolo palestinese di Gaza che chiedeva libere elezioni oggi è governato da Hamas. In Algeria i conati democratici hanno portato ad una guerra civile con decine di migliaia di vittime e uno stato d’assedio che dura da quasi vent’anni.

Ciò che sta accadendo nel Mediterraneo è una storia di despoti attempati, longevi e benestanti contro popolazioni giovani e povere. Una storia di ribellioni che ha i suoi prodromi recenti nell’estate del 2008 con il colpo di stato militare in Mauritania dove si approfitta dell’assenza del presidente totalitario Taya al potere da 24 anni, temporaneamente in Arabia Saudita per i funerali di Re Fahad. Anche il libico Gheddafi nel 1969 approfittò dell’assenza di Re Idriss, in visita in Turchia, e da allora, e sono passati 42 anni, non si schioda dal trono. All’inizio del 2011 si arriva ad un referendum nel Sudan del presidente Bashir, che già fu un ufficiale egiziano nella guerra contro Israele del 1973 (e in carica in Sudan fin dal golpe del 1989) per la secessione del sud, un nuovo paese grande come la Francia, con capitale Juba.

E’ poi la volta della Tunisia di Ben Ali, che andò al potere nel 1987, anch’egli mediante un golpe. Dopo 24 anni di potere, il dittatore tunisino viene messo in fuga per opera della piazza (30 morti e centinaia di feriti) e fugge in Arabia Saudita.

In Egitto l’82enne presidente Mubarak comincia a vacillare il 25 gennaio 2011, giornata della polizia, trasformata dal popolo in “giornata della rabbia” proclamata su Twitter e Facebook. Il popolo che risponde al tamtam sui social networks e che dà vita ad imponenti proteste (due milioni di dimostranti, 300 morti e 5.000 feriti) è lo stesso che un paio di settimane prima aveva risposto ad un sondaggio di opinione schierandosi così: 59% in favore degli islamisti e 27% con i modernizzatori.

La Giordania, uno dei due soli paesi arabi (l’altro è l’Egitto) ad avere firmato una pace con Israele, ogni venerdì è scossa dalle dimostrazioni della gente che esce dalle moschee e trasforma la preghiera in richiesta di un governo eletto.

Sulla sponda nord del Mare un tempo Nostrum gli unici minareti si trovano in Albania. Anche lì accade qualcosa, si rispolvera la contestazione agli esiti delle ultime elezioni politiche e i socialisti all’opposizione scendono in piazza contro il governo democratico: tre morti e decine di feriti.

Nell’Algeria di Bouteflika, che è sulla scena da sempre ma al potere da “soli” 12 anni, nell’anno in corso non è accaduto ancora nulla ma una conseguenza del “tunisami” è da registrare: il presidente abroga lo stato d’assedio in vigore fin dal 1992, consentendo manifestazioni ovunque, ma non ad Algeri. La mossa può avere lo scopo di deconflittuare preventivamente le tensioni, ma potrebbe anche rivelarsi una mossa autolesionista. Le prossime settimane ci diranno se l’iniziativa di Bouteflika è stata lungimirante o suicida.

Anche lo Yemen del presidente Saleh, che rifiuta di concedere agli USA una base nell’isola di Socotra, è percorso nello stesso periodo da inusuali proteste di piazza come quelle avvenute in tutti gli altri paesi arabi che abbiamo passato in rassegna, tutte apprezzate e benedette da Teheran.

Quali potranno essere gli scenari futuri? Inutile dilungarsi troppo, perché sono tutti possibili, dal migliore al peggiore con tutti quelli intermedi. Lo scenario migliore, ma un po’ utopistico, è che democrazia, diritti umani e tolleranza escano vincitori e i paesi del Nordafrica e del Medioriente si trasformino immediatamente in campioni di modernità occidentale. Lo scenario peggiore (e purtroppo meno impossibile di quello migliore) è che il caos in atto favorisca la presa del potere da parte dell’Islam radicale in tutti i paesi considerati, con conseguenze deleterie per l’esistenza di Israele a breve termine e dell’Europa stessa a medio termine.

Gli Stati Uniti d’America, da parte loro, sono alle prese con la prima crisi internazionale in cui hanno deciso di svolgere un ruolo attivo. Non che finora non siano mancate le occasioni, tutt’altro, ma ai tempi della guerra Russia-Georgia, dell’affare Cina-Tibet, della questione Cina-Uiguri e del problema dell’onda verde iraniana avevano deciso di tenere un profilo bassissimo, riuscendoci in pieno. Ora invece si ergono a vigili urbani mondiali, si agitano, sentenziano, auspicano soluzioni, invitano a passi indietro, avanti e di lato, bloccano gli aiuti militari all’Egitto, suggeriscono a Mubarak di farsi da parte ma non del tutto e fanno l’occhiolino a El Baradei, dimenticando che il premio Nobel per la pace (vabbè, lo fu anche Arafat) dichiarò che se fosse diventato presidente dell’Egitto avrebbe riconosciuto Hamas come unico interlocutore a Gaza e avrebbe annullato le sanzioni contro quel gruppo. Gli USA, dunque, si agitano all’americana, ma qualcosa fanno. Gli altri paesi occidentali, invece, forse consapevoli del motto “come fai, sbagli”, osservano impotenti in silenzio.

Cosa hanno fatto le Organizzazioni internazionali? L’ONU non ha nemmeno fritto un po’ d’aria da inserire in una risoluzione, cosa che di solito sa fare benissimo. Eppure in passato ne ha emesse per molto meno, anche per questioni di infimo ordine quali augurare buon lavoro al Segretario Generale entrante e buon viaggio a quello uscente.

La NATO, che ha un’iniziativa denominata Dialogo Mediterraneo con sette paesi del Nordafrica e del Medio Oriente, si è disinteressata della crisi mediterranea in atto.

L’Unione Europea si sta velocizzando, ma non è una buona notizia. Il compianto Partenariato euromediterraneo lanciato a Barcellona nel 1995 ha impiegato una quindicina di anni per essere dichiarato defunto, mentre l’Unione per il Mediterraneo (il cui co-presidente, guarda caso, si chiama Hosni Mubarak) inventata nell’estate del 2008 per sostituire il fallimentare processo di Barcellona, ha impiegato due soli anni per fallire a sua volta. Se il trend è questo, la prossima iniziativa europea per il Mediterraneo durerà otto giorni. La UE nel consiglio europeo del 4 febbraio dedicato all’energia ha inserito all’ultimo momento nell’ordine del giorno anche la questione egiziana, come se si trattasse di esaminare burocraticamente i vari problemi in ordine alfabetico (cosa abbiamo sotto la E? Energia, Egitto, e poi?…) senza peraltro giungere a nulla di concreto. L’Europa resta “percossa e attonita” (verrebbe da dire “ashtonita”), autocondannata dalla propria insipienza ad un ruolo marginale: conta assai meno dei social networks.

La Lega Araba, che pure ha la sede al Cairo ed ha un egiziano (l’ex ministro degli esteri Amr Mussa) come Segretario Generale, non ha saputo fare altro che parlare della necessità di tenere prima o poi un vertice straordinario dell’organizzazione.

E le altre organizzazioni regionali o subregionali? Unione Africana, che pure ha diversi suoi membri fra i paesi coinvolti dalla crisi: non pervenuta. OSCE, che pure ha inventato un dialogo mediterraneo simile a quello della NATO: non pervenuta. OCI, Organizzazione della Conferenza Islamica, che raggruppa tutti i paesi interessati dalla crisi (Albania compresa) fra i suoi membri o osservatori: non pervenuta. UMA, Unione del Maghreb arabo: non pervenuta.

Ne consegue una conclusione deludente: le Organizzazioni internazionali, pur rivestendo un ruolo crescente sullo scenario mondiale a scapito del vecchio stato nazionale cui erodono sempre maggiori fette di sovranità, non sono ancora pienamente idonee a fronteggiare le emergenze. Funzionano bene in tempo di pace e in assenza di turbative, ma mostrano tutti i loro limiti in caso di crisi.