Alle Olimpiadi di Berlino davvero Hitler si rifiutò di dare la mano a Owens?
30 Luglio 2012
È tempo di Olimpiadi e con esse tornano a galla anche certe ben riuscite bufale. Ad esempio le Olimpiadi di Berlino, svoltesi nella prima metà di agosto del 1936, sono nell’immaginario collettivo quelle di Jesse Owens, l’atleta statunitense di colore a cui Hitler si rifiutò di stringere la mano. Nulla di più falso.
Adolf Hitler, inizialmente, non era entusiasta di ospitare a Berlino le Olimpiadi, “quell’indegno festival organizzato dagli ebrei”, ma poi cambiò idea quando i suoi collaboratori gli fecero notare che l’occasione poteva essere propizia per propagandare la grandezza della Germania e la modernità e superiorità del nazionalsocialismo, soprattutto se Leni Riefenstahl, una delle migliori registe cinematografiche del Reich, avesse immortalato i Giochi sulla pellicola di celluloide. Per ottenere questi risultati era necessaria un’organizzazione capillare, scenari grandiosi e cerimoniali suggestivi, cose che vennero realizzate con grande maestria.
Negli Stati Uniti molti erano perplessi a causa dell’opportunità propagandistica che veniva offerta alla Germania e si sviluppò anche un movimento di boicottaggio ai Giochi olimpici. Lo stesso Presidente Roosevelt era favorevole a questo movimento e per meglio rendersi conto della situazione mandò a Berlino un suo inviato, il miliardario ultraconservatore Avery Brundage, che in futuro sarebbe diventato il presidente del CIO, il Comitato Internazionale Olimpico. Ma Brundage, con grande scorno di Roosevelt, tornò in patria entusiasta dell’operato dei tedeschi.
Hitler non badò a spese: fece costruire uno stadio della capienza di 100.000 spettatori vicino ad un campo di parata dove si potevano riunire addirittura mezzo milione di persone. La cerimonia di inaugurazione si tenne il 1° agosto, in un tripudio di svastiche, con 120.000 persone che gridavano freneticamente “Heil Hitler!”
Il solenne cerimoniale culminò con l’ingresso nello stadio del tedoforo che portava la fiaccola olimpica, l’ultimo dei 3.075 staffettisti che si erano dati il cambio ogni mille metri lungo i 3.075 chilometri fra Atene e Berlino. Da allora, quella procedura si sarebbe ripetuta ad ogni Olimpiade. Ma questo non fu l’unico “primato” organizzativo. Le undicesime Olimpiadi passarono anche alla storia perché furono le prime riprese dalla televisione e per il bollettino “Olympia Zeitung” stampato in 14 lingue con una tiratura quotidiana di 300.000 copie. Il numero dei partecipanti superò ogni precedente cifra: 4.066 di cui 328 donne in rappresentanza di 49 nazioni. Un altro fatto nuovo fu l’eccezionale flusso turistico alimentato dai Giochi: più di 2.000 treni speciali portarono a Berlino centinaia di migliaia di stranieri e dai locali pubblici sparirono i cartelli con la scritta “gli ebrei sono indesiderati”.
Particolare cura fu dedicata alla preparazione tecnica degli atleti tedeschi, che il regime voleva che prevalessero su tutte le altre nazioni, per completare anche dal punto di vista sportivo il trionfo delle Olimpiadi berlinesi. E così tutti gli atleti della rappresentativa tedesca andarono in ritiro per tre mesi nella Selva Nera, per prepararsi degnamente.
E i risultati furono aderenti alle aspettative del Terzo Reich: la Germania si classificò prima vincendo 88 medaglie, di cui 33 d’oro, 26 d’argento e 29 di bronzo. Gli USA si dovettero accontentare del secondo posto con un numero complessivo di 56 medaglie (24 d’oro, 20 d’argento e 12 di bronzo). Al terzo posto l’Italia con 22 medaglie, di cui 8 ori, 9 argenti e 5 bronzi, anche se il terzo posto, in base agli odierni criteri di classificazione, spetterebbe all’Ungheria che guadagnò un numero complessivamente minore di medaglie rispetto all’Italia (16) ma 11 di queste erano d’oro. Seguivano la Svezia con 20 medaglie, Finlandia e Francia con 19 ciascuna, Giappone con 18, Olanda con 17, Svizzera con 15, Gran Bretagna con 14, Austria con 13, fino a concludere con Filippine e Portogallo con una sola medaglia di bronzo a testa. Le potenze di quello che da lì a quattro anni sarebbe diventato l’Asse, dunque, si aggiudicarono oltre il 40% del medagliere complessivo.
Ma veniamo alle medaglie che più ci interessano, quelle di Jesse (diminutivo di James) Cleveland Owens. Il nostro era un atleta di colore, nato il 12 settembre 1913 a Oakville in Alabama, da Henry e Emma Owens, ultimo di dieci figli. Alle Olimpiadi del ’36 vinse quattro medaglie d’oro: nei 100 e 200 metri piani, nel salto in lungo e nella staffetta 4×100.
Nella gara del salto in lungo chi si classificò quarto con la misura di 7,73 e mancò il podio di un soffio fu l’italiano Arturo Maffei, un grande dell’atletica italiana, nato a Viareggio il 9 novembre 1909, che iniziò la sua brillante carriera sportiva nel 1926 nel calcio, come portiere di una squadra parrocchiale di Peretola. Maffei vinse otto titoli di campione d’Italia fra il 1930 e il 1940, vestì per 25 volte la maglia della nazionale e partecipò due volte ai campionati europei. Quando ottenne il quarto posto a Berlino fu proprio Jesse Owens a congratularsi con lui e a definirlo il “miglior stilista” della competizione. Ed è proprio Maffei a smascherare la diceria delle presunte mancate congratulazioni di Hitler a Owens.
Maffei, infatti è stato testimone oculare dell’episodio e ci racconta nei minimi dettagli come si svolse la faccenda della stretta di mano. Le cose andarono esattamente così. Alla fine della gara del salto in lungo Hitler volle congratularsi personalmente con gli atleti; scese dalla tribuna e si presentò al cospetto di Owens, a meno di un metro da lui. Il fatto stesso che Hitler scese dalla tribuna per incontrare Owens fa di per sé giustizia della diceria secondo la quale il dittatore “non volle salutare un negro”. Se non avesse voluto farlo, avrebbe abbandonato lo stadio senza incontrare gli atleti, o semplicemente sarebbe rimasto in tribuna.
Ma c’è dell’altro. Hitler, dunque, arrivato davanti a Owens lo salutò per primo, alzando il braccio destro nel saluto nazista. Owens non poteva certo rispondere con il braccio teso e perciò allungò la mano verso Hitler. Costui, vedendo che Owens gli allungava la mano, abbassò il braccio teso e allungò a sua volta la sua mano verso quella dell’atleta, per stringergliela. Ma proprio in quell’attimo Owens, forse ricordandosi di essere un militare, portò la mano destra alla fronte salutando Hitler con il classico saluto militare mentre il dittatore tedesco rimase per un attimo con la mano tesa. “A questo punto, decidete voi chi non diede la mano a chi”, conclude Maffei.
Ma se c’è una testimonianza che toglie ogni dubbio, è quella dello stesso Owens, che descrive nelle sue memorie anche ciò che accadde dopo la premiazione: “Dopo essere sceso dal podio del vincitore, passai davanti alla tribuna d’onore per rientrare negli spogliatoi. Il Cancelliere tedesco mi fissò, si alzò e mi salutò agitando la mano. Io feci altrettanto, rispondendo al saluto. Penso che giornalisti e scrittori mostrarono cattivo gusto inventando poi un’ostilità che non ci fu affatto. E ancora: “Hitler non mi snobbò affatto, fu piuttosto Franklin Delano Roosevelt che evitò di incontrami. Il presidente non mi inviò nemmeno un telegramma”.
Owens e Hitler, dunque, si incontrarono, si salutarono, scambiarono anche qualche parola e vollero pure stringersi le mani. Se quelle due mani non si incontrarono materialmente, ciò non è dovuto al fatto che una era bianca e l’altra era nera, ma fu dovuto semplicemente al caso, ai diversi modi di salutare tipici dei due. L’episodio in sé, pertanto, è un episodio assolutamente normale, banale, banalissimo per non dire insignificante, e oggi nessuno ne parlerebbe se nel frattempo non fosse scoppiata un’altra guerra mondiale.
Cinque anni e mezzo dopo le Olimpiadi di Berlino, infatti, con l’attacco giapponese a Pearl Harbor, USA e Germania entravano in guerra fra di loro. A quel punto si poteva già fare una previsione: con la vittoria degli USA, Hitler sarebbe passato alla storia (fra le tante altre cose) come quel razzista che si rifiutò di dare la mano a Owens; con la vittoria della Germania, invece, Owens sarebbe stato ricordato da tutti come quello screanzato che non volle dare la mano a Hitler. Come noto, l’ipotesi che si verificò fu la prima e oggi tanti sono convinti, a torto, che Hitler si rifiutò di incontrare Owens, un “povero negro” che veniva dal paese della democrazia.
Democrazia? Quanto la democrazia americana fosse razzista, Jesse Owens lo sapeva meglio di chiunque altro. Lo sapeva fin dal 1922, quando frequentava la Fairmont Junior High School di Cleveland, naturalmente in una classe di bambini di colore, perché negli USA c’era la segregazione razziale. Lo sapeva fin dal 1930, quando frequentava la East Technical School, naturalmente in una classe di ragazzi di colore, perché negli USA c’era la segregazione razziale. Lo sapeva fin da quando frequentava la Ohio State University, naturalmente in una classe di studenti di colore, perché negli USA c’era la segregazione razziale. Lo sapeva fin da quando si allenava nell’atletica leggera. Poco prima di attraversare l’Atlantico per partecipare alle Olimpiadi di Berlino sperimentò a sue spese cos’era il razzismo, quella volta che in un ristorante solo gli atleti bianchi poterono mangiare, mentre a Jesse e agli altri atleti di colore il cibo fu negato “perché erano negri”, perché negli USA c’era la segregazione razziale.
Da notare, poi, che mentre a Berlino venivano celebrate le Olimpiadi, in Spagna aveva luogo la guerra civile, con folta partecipazione straniera, sia dalla parte dei repubblicani che dei nazionalisti. Fra i 40.000 stranieri provenienti da 39 nazioni che combatterono nelle brigate internazionali contro le truppe regolari di Franco, c’erano anche parecchi americani, tutti democratici, tutti antifascisti, tutti libertari. Eppure, gli statunitensi di pelle bianca erano inquadrati nei battaglioni “Lincoln” e “Washington”, mentre quelli di colore erano inquadrati in un battaglione a parte. Da notare anche che dopo lo sbarco americano a Nettuno le tombe del cimitero statunitense vennero fatte scavare ai soldati di colore.
E dopo la seconda guerra mondiale Jesse vide l’abolizione della segregazione razziale nelle forze armate americane solo nel 1948, dodici anni dopo che Hitler gli tese la mano, ma non ancora sugli autobus, perché nel 1955 Rosa Parks, una donna nera, osò salire su un autobus per bianchi a Montgomery in Alabama e fu arrestata. Diciannove anni dopo che Hitler gli tese la mano.
E Jesse riuscì a vedere dichiarata incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole americane solo nel 1954, ma soltanto sulla carta, perché tre anni dopo il presidente Eisenhower dovette mandare mille soldati a Little Rock in Arkansas per consentire a nove studenti neri di entrare a scuola. Era il 1957, ventuno anni dopo che Hitler gli tese la mano. E Jesse riuscì a vedere il primo “studente negro” entrare in un’università americana solo nel 1962; quello studente era uno che si chiamava James come lui, era James Meredith, che entrava nella scuola non da solo ma accompagnato da trecento poliziotti, mentre veniva accolto a sputi e con un lancio di pietre da parte degli studenti bianchi. Questo accadeva ventisei anni dopo che Hitler gli tese la mano. E per potere esercitare il diritto di voto per la prima volta Jesse Owens dovette aspettare il 1968, dopo 55 anni di vita, 192 anni dopo l’adozione della Costituzione americana, 12 anni prima di morire, 32 anni dopo che Hitler gli tese la mano.
Ma noi restiamo convinti che fosse una bufala quella della stretta di mano rifiutata.