Alle radici della rabbia di Obama verso gli USA e l’Occidente
26 Marzo 2011
Il nuovo libro di Dinesh D’Douza, “The Roots of Obama’s Rage” (Le radici della rabbia di Obama), vanta una reputazione nata ancor prima della sua uscita, dovuta soprattutto a qualche anticipazione fattane da Newt Gingrich e da una recensione su Forbes. Adesso che è in libreria, l’autore, conversando con Kathryn Jean Lopez per National Review Online, ci spiega per filo e per segno il perché di quel titolo.
Cosa ti rende così sicuro di sapere quel che pensa Obama?
Molto semplice. Ricostruisco il suo modo di pensare da quello che scrive e da quel che dice. La mia teoria su di lui deriva da lui stesso. Si sentono dire cose sciocche, per esempio che Obama non ha mai veramente conosciuto il padre, e quindi non può esserne stato influenzato. Si legga il suo libro, iniziando dal titolo: “I sogni di mio padre”. E’ tutto incentrato su come Obama ha plasmato i suoi valori, la sua personalità, la sua identità, è tutto centrato sull’immagine paterna. Non faccio altro che prendere Obama in parola su questo punto, dopo di che pongo una domanda: “Se Obama ha assunto l’ideologia anticolonialista del padre, in che modo questo fatto aiuta a comprenderne le scelte politiche?”. Ciò spiega, in effetti, non soltanto la sua politica, nazionale e internazionale, ma anche tanti piccoli aspetti del suo agire che altrimenti rimarrebbero inspiegabili.
Sii onesto. Ti preoccupavi che su Obama fosse già stato detto e scritto tutto, così hai cercato un approccio nuovo e sei andato in Kenya.
In realtà, ero partito da un’altra teoria su Obama, non meno originale. La mia ipotesi di lavoro è che Obama fosse veramente un alfiere dei diritti civili, che si fosse formato con le idee dei movimenti per i diritti civili. Ciò spiegherebbe la profonda fedeltà di Obama alle istituzioni federali. Dopo tutto, è stato il governo federale che ha cancellato la segregazione razziale nelle scuole, che ha agevolato la nascita di una classe media nera; attualmente, le istituzioni federali godono di maggior popolarità tra i neri che tra i bianchi. Dunque, la mia teoria era: Obama è un paladino dei diritti civili, e la sua novità non è altro che riprendere l’agenda del movimento per i diritti civili ai neri, cancellando però la parola “neri”. E’ stato solo quando ho iniziato a studiare il retroterra dell’uomo che mi sono reso conto che quella teoria era sbagliata. Le sue radici sono in Kenya, e lui è stato plasmato assai di più dall’anticolonialismo che da qualsiasi cosa Martin Luther King abbia detto o fatto.
Tutte cose che si sarebbe potuto dire durante la campagna elettorale, che è stata basata sugli scritti di Obama. Perché è importante parlarne adesso, e dov’è la novità?
E’ importante parlarne anche adesso perché conoscere le motivazioni di Obama vuol dire leggere la bussola a cui si ispira. Non solo possiamo spiegare quel che fa, ma anche predire quel che farà in futuro. Per esempio, ci si chiede adesso se Obama si sposterà al centro dopo le elezioni di medio termine, come fece Clinton nel 1994. La mia teoria è che non lo farà, perché non può. Clinton non era un ideologo. Se Obama fosse diventato un liberal all’università, allora potrebbe liberarsene, una volta constatato che non ha funzionato. Ma se la sua formazione è avvenuta quando era molto giovane, e se è il risultato del rapporto conflittuale con suo padre, allora le sue idee sono parte della sua psiche. Non può cambiare perché, secondo la sua struttura mentale anticolonialista, un compromesso con i repubblicani sarebbe un tradimento. Verrebbe meno ai suoi principi se stringesse un accordo con coloro che considera come il partito del neocolonialismo.
Scrivi che “Obama si rende conto della necessità di avanzare proposte radicali, talvolta persino rivoluzionarie, in una forma soft, anodina, in modo che possano passare la soglia dell’accettabilità politica”. Non si tratta semplicemente di saper fare politica?
Sì. Possiamo tutti ammirare come Obama riesca in questo. In qualche modo, riesce a tradurre i sogni del padre – un uomo che viveva nella tribù dei Luo nel 1950 – in un linguaggio che l’americano medio può comprendere. Obama non dice: “Non mi interessa se l’Iran ottiene la sua bomba atomica, il mio obiettivo è quello di ridurre l’arsenale atomico americano perché per me la vera nazione canaglia è l’America”. Dice invece: “Voglio un mondo libero dalle armi nucleari”. E l’unica cosa che fa a questo riguardo è quella di ridurre l’arsenale nucleare americano, mentre la Corea del Nord continua la corsa agli armamenti e l’Iran è sempre più vicino ad ottenere la sua bomba atomica.
Se lo conosci così bene, cosa faresti – da intellettuale conservatore e rettore di un’università evangelica – per farlo innervosire?
Obama è rimasto bloccato nella macchina del tempo con suo padre. Il suo anticolonialismo è lo stesso che c’era in Africa nel 1950: confisca delle terre da parte dello Stato, tassazione punitiva, e così via. Il mio anticolonialismo è quello dell’India del Ventunesimo secolo. Recentemente, il primo ministro indiano, Manmohan Singh, ha tenuto un discorso a Oxford, nel quale ha rivolto due grazie al colonialismo. Ha detto che l’India sta crescendo rapidamente, tanto da essere sulla strada per diventare una superpotenza. Come? Grazie al fatto che gli indiani parlano inglese, hanno tecnologia, hanno università, esiste la proprietà privata, hanno la democrazia. E perché hanno tutte queste cose? Le hanno avute dagli inglesi. Una cosa del genere, Singh non avrebbe potuto dirla una generazione fa. Ma il mondo sta cambiando. Le nazioni povere hanno adesso una soluzione migliore per gestire l’eredità del colonialismo. Possono usare il basso costo della manodopera per produrre ciò che altra gente vuole comprare. E’ quello che l’economista Thorstein Veblen ha chiamato “il vantaggio dell’arretratezza”. Dunque la differenza tra Obama e me è che io aderisco al nuovo mondo della globalizzazione e del libero commercio, mentre lui continua a essere ossessionato dal fantasma del padre.
Perché Obama appare tanto arrabbiato sulla copertina del tuo libro?
Perché è arrabbiato. Quell’immagine ne cattura la rabbia repressa, ed è coerente con la tesi del libro.
Avendolo sentito parlare, posso dire che Obama accetta le critiche, pur essendone infastidito. Non ti sembra esagerato parlare di rabbia? Come si sarebbe manifestata “rabbia” nell’operato dell’amministrazione Obama?
Qualcuno considera Obama una persona serena perché lo sente parlare di temi come eguaglianza e povertà in modo pacato. Sembra che stia sciorinando i numeri della sua dichiarazione dei redditi. Alcuni liberal restano confusi, e pensano che Obama sia una persona molto cerebrale. Ma c’è una spiegazione diversa. Appare freddo su questi temi perché, in realtà, non gli interessano. Ciò che lo muove non è né la povertà, né l’ineguaglianza. Ciò che lo muove è l’odio verso i ricchi, le banche, l’industria farmaceutica. Nota che quando Obama parla di questi soggetti, le sue labbra si torcono e la sua faccia si incupisce. Tradisce un’autentica passione. E’ qui che lui vuole – per usare le sue stesse parole – tirare un calcio in culo. In Obama c’è una rabbia trasfigurata, che ricorda quella di Barack Obama senior, un uomo che passava il tempo seduto fuori della sua capanna e si abbandonava ubriaco alla rabbia contro l’Occidente, colpevole di negargli la realizzazione dei suoi sogni anticolonialisti.
In quali occasioni si sarebbe manifestata una tale impostazione mentale?
Ramesh Ponnuru e altri sostengono che Obama sia un tipico liberal. Ma i tipici liberal non se ne escono con la richiesta di liberare il terrorista di Lockerbie. I tipici liberal non rimuovono il busto di Winston Churchill dallo studio ovale. I tipici liberal non bloccano le perforazioni petrolifere in America, finanziando quelle in Brasile. I tipici liberal non cercano di trasformare la Nasa in un progetto di integrazione islamica. La mia teoria anticoloniale spiega elegantemente tutti questi fatti. Se Obama vede l’America come l’occupante neocolonialista dell’Iraq e dell’Afghanistan, allora i musulmani che combattono contro l’America sono resistenti anticolonialisti e meritano una certa misura di simpatia. Non meraviglia allora che Obama non si faccia problemi a liberare il terrorista di Lockerbie. Obama odia Churchill perché fu Churchill il primo ministro che represse le rivolte anticoloniali in Kenya, durante le quali sia il padre sia il fratello di Obama vennero arrestati. Il doppio standard di Obama sulle attività petrolifere si capisce in pieno solo quando ci si rende conto che lui vuole gli oppressori neocoloniali meno ricchi, le ex colonie più ricche. Se Obama vede nella Nasa un simbolo della potenza dell’America – non siamo solo una superpotenza mondiale, stiamo tentando di colonizzare lo spazio – allora possiamo capire perché voglia convertirla in un simbolo di intesa internazionale, piuttosto che di grandezza nazionale. Inserisci la chiave anticoloniale, e puoi spiegare tante cose. Toglila, e diventa impossibile trovare un motivo nelle azioni di Obama.
Non ti preoccupa l’eventualità che tu stia incoraggiando i “birthers” (parola che indica chi sostiene che Barack Obama non sia nato in America, e quindi non sia eleggibile a presidente degli Stati Uniti – ndt) e quelli che se ne vanno fino in Kenya per dimostrare che Obama è musulmano?
Le mie tesi non hanno nulla a che fare con quella dei “birthers”, cioè che Obama non è nato in America. In “The Roots of Obama’s Rage”, affermo esplicitamente che Obama è nato alle Hawaii. La sua nascita è registrata da due quotidiani locali nell’agosto del 1961. E’ stato Robert Gibbs, il capo dei rapporti con la stampa per la Casa Bianca, a legare il mio libro alle tesi dei “birthers”. Poi altri soggetti, come il New York Times, hanno ripreso acriticamente le sue parole. Ma si tratta di un completo travisamento delle mie tesi.
Non metti in dubbio che Obama sia socialista, giusto? Dici semplicemente che ciò non è tutto.
E’ chiaro che il socialismo è solo un aspetto del personaggio. Si ricordi che molte nazioni del terzo mondo, quando decisero di combattere il colonialismo, si allearono con quella che, allora, era la principale alternativa: il socialismo sovietico. Il padre di Obama, Barack senior, era un socialista africano. Nel 1965 scrisse un testo che proponeva un aumento del cento per cento delle tasse. Sosteneva che non c’era niente di male in questo, purché i proventi andassero a beneficio dello Stato e della società. E’ bene notare che Obama, che del padre sa tutto, non ha mai fatto menzione di quel testo in nessuno dei suoi discorsi. Ad è ancor più degno di nota il fatto che non esista, in pratica, nessuna notizia su un documento che sembra in grado di fare luce su quello che Obama sta facendo alla Casa Bianca, o su quello che Obama intende quando dice che i ricchi non stanno pagando “la loro parte”, e così via. Il socialismo, in definitiva, si inquadra in un più ampio modello anticolonialista. Entrambe le teorie, viste in connessione l’una con l’altra, sono necessarie per avere un panorama completo di quello che sta facendo Obama.
© National Review Online
Traduzione Enrico De Simone