Alle soglie della verità

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Alle soglie della verità

19 Luglio 2009

Uno dei problemi più ardui e avvincenti dell’astronomia, che serpeggia in tutta la sua storia e la segna di sé come un destino ancestrale, è quello se l’Universo sia aperto o sia chiuso: cioè se la curvatura dello spazio si pieghi su sé stessa per richiudersi dopo un gran giro come una bestia immensa eppur finita; ovvero se le sue propaggini non finiscano più di allungarsi, perdendosi nei vaneggiamenti dell’infinito. Fin da quando l’uomo ha sospettato l’esistenza di uno spazio che contiene tutti gli altri spazi, si è chiesto quale forma potesse avere tale recipiente universale. E qualunque soluzione di questo problema ha l’aspetto angoscioso di una smarrita fuga di specchi per corridoi senza fine oppure la sconfortante apparenza di una prigione labirintica e ripetitiva da cui non si esce. E nonostante queste minacciose esalazioni, molti si affacciano all’abisso e scrutano con occhi avidi nelle gelide profondità da cui potrebbe scaturire improvvisa e splendente la soluzione del mistero o invece levarsi l’ala nera della follia.
A questo indecifrabile tormento l’astronomo Numitor aveva dedicato trentacinque anni della sua vita esemplare, che fluiva – con fruscio quasi impercettibile – tra le geometriche sponde di ferree abitudini. Poche ore per il sonno, molte per lo studio, alcune per le lezioni e i seminari con gli allievi e i colleghi dell’Osservatorio, in una misurata scansione dalla quale erano stati via via eliminati tutti gli eccessi, tutte le superfluità, tutte le leggerezze e, alla fine, anche i viaggi per partecipare ai congressi scientifici, fonte ormai di distrazione più che di profitto.
L’aspetto fisico di Numitor era singolare e vagamente impressionante: sulle gambe lunghissime e magre era appollaiato un torace breve e spesso, da cui spiccavano due braccia mulinanti e un collo da uccello di passo. La fronte altissima e liscia opprimeva sotto il suo peso un viso schiacciato in cui gli occhi neri e mobilissimi, il naso largo e sensibile, la bocca tumida e ampia e il mento proteso si sviluppavano solo in larghezza, dando slancio all’impeto delle orecchie, che sembravano divergere dal cranio per qualche repulsione di natura elettrostatica, la stessa che gli faceva drizzare i radi e corti capelli sulla cuticagna. Ma in chi lo conosceva per la prima volta, lo sgomento di fronte a questa natura fenomenale cedeva presto all’ammirazione per la sua dottrina sconfinata, all’imbarazzo per i suoi formidabili silenzi e all’apprensione per i suoi scoppi di umor bizzarro che talvolta degeneravano in vampate improvvise di collera.
Abitava nell’Osservatorio, dentro una stanzetta con una finestrina alta, un letto e un armadio. Lì accanto c’era il suo studio, che si era pian piano conformato alla sua struttura fisica e ai suoi abiti intellettuali, sicché pareva essergli un vestito poco più ampio, stazzonato e polveroso; e, come da un vestito, malvolentieri Numitor se ne separava.
Quali tempestose riflessioni, quali esplosive elucubrazioni avvenissero da anni dietro quella fronte sterminata non era dato sapere con precisione e solo nei seminari e nelle rare lezioni se ne poteva avere un lontano riflesso. Molto più istruttive, ma sempre oscure, erano certe dubbie allusioni che a volte faceva a mezza bocca, o certe minacciose promesse che si lasciava sfuggire a commento delle relazioni che si degnava di ascoltare durante gli incontri scientifici. Questi suoi indistinti brontolii davano vaghissime ansie e preoccupazioni ai colleghi più anziani Atanassim e Rune, e in particolare al Direttore dell’Osservatorio, professor Proakis. La lunga consuetudine con Numitor e con le sue stravaganze li aveva peraltro avvezzati a considerare quegli eventi alla stregua dei fenomeni, interessanti e fors’anche inquietanti, ma lontani e quasi speculativi, che avvengono nei cieli.
Ma come a volte un fenomeno celeste, che si pensava relegato nel mondo astratto delle cose che si contemplano da lungi, può attraversare rapido le dimensioni dello spazio e piombarci solido e pesante tra i piedi come un meteorite fumigante per dirci che anche lassù ci sono realtà tangibili; così un giorno avvenne che la figura generica e sublimata di Numitor acquistò un peso e una corposità improvvisi e concretissimi che sconvolsero in modo imprevedibile l’esistenza calma e un po’ sonnolenta dell’Osservatorio.
Una mattina presto, che ancora le brume rallentavano il sorgere del sole, Numitor uscì dalla sua stanza avvolto in una frusta vestaglia e percorse a passi giganteschi i corridoi silenziosi. Andò all’apparecchio telefonico che stava in uno sgabuzzino accanto all’ufficio di Proakis, fece rapidamente il numero di casa di quest’ultimo, poi quello di Atanassim e quello di Rune. A ciascuno disse soltanto:
– Vieni immediatamente all’Osservatorio. Ho fatto una scoperta eccezionale. Addio.
Poi tornò nella sua stanza, facendo sventolare le falde della vestaglia e suscitando complicate correnti d’aria. Mezz’ora dopo era nella saletta dei seminari e passeggiava avanti e indietro di fronte ai tre colleghi che, seduti sui banchi, si guardavano in tralice vagamente impensieriti, gli occhi acquosi ancora persi nelle borse spiegazzate dal sonno interrotto. Numitor cominciò:
– Vi ho convocato perché desidero comunicarvi una scoperta straordinaria. Della verità di quanto sto per dirvi sono certo, ma prima di redigere una memoria per gli Acta Astronomica voglio discutere con voi alcuni particolari.
Si fermò di colpo e fissò i suoi occhi scintillanti sui volti intenti dei tre. Corrugò un po’ la fronte e parve che la parte inferiore del viso gli sparisse nell’incresparsi delle rughe come fra mille tagli orizzontali. Con un sorriso giallo riprese:
– Non voglio farvi il torto di ritenere che non siate al corrente del problema che ho studiato per alcuni decenni, ma poiché la conoscenza che ne ho io è tanto superiore alla vostra, sarà utile che vi faccia alcune brevi premesse.
Andò alla lavagna, brandì il gesso e disse severamente:
– Il problema di decidere se l’universo sia aperto o chiuso può essere affrontato in due modi. I dati da cui molti osservatori partono sono gli spostamenti Doppler di galassie e quasar molto lontani, spostamenti ai quali è legata tanto la distanza di questi oggetti quanto la loro luminosità intrinseca e quella apparente. L’attenuazione dalla luminosità intrinseca a quella apparente dipende proprio dalla curvatura dello spazio.
Qui Numitor tracciò a braccio teso sulla lavagna un’ampia curva, che doveva rappresentare forse la curvatura dello spazio. Poi, guardando ispirato il soffitto, riprese:
– Gli astronomi dispongono i dati delle osservazioni su certi grafici che ben conoscete, i diagrammi di Hubble, e sperano (qui parve che ridesse sommessamente) di poter discriminare tra una curva corrispondente a un universo chiuso e una curva corrispondente a un universo aperto. Ma queste curve sono talmente vicine che solo un’ingiustificabile ipotesi a priori o una cecità paradossale può far propendere per l’una o per l’altra soluzione. Gli errori sperimentali sono spesso maggiori della distanza tra le curve. I nostri irriducibili ricercatori hanno perseguito allora molte strade, scavando nella teoria del dottor Einstein, che lega in modo encomiabile la curvatura dello spazio-tempo alle quantità dinamiche della teoria del campo. Ma le misure dei fenomeni gravitazionali dipendono dalle unità impiegate, in particolare dalle unità di misura del tempo.
Numitor si fermò per vedere l’effetto delle sue parole sui tre ascoltatori, i quali per la verità lo guardavano con grande attenzione.
– Il tempo, capite?, il tempo. Ora, signori, esistono due modi fisicamente indipendenti di misurare il tempo: il modo gravitazionale, basato sulla rotazione dei corpi celesti legati tra loro dalle forze di Newton; e il modo atomico, basato sul decadimento di certi atomi. Questi due modi hanno da essere comparati tra loro, onde dedurne quale fondamento si possa dare alla tacita ma fondamentale ipotesi che essi due modi di misurazione forniscano sempre e ovunque il medesimo tempo. Ma esaminiamo più da presso il concetto ineffabile di tempo: che cos’è questo, che Kant definiva come la categoria del senso nostro interno? Che cos’è questo, nel quale Aristotile medesimo collocava l’irrefragabile divenire e ohimé invecchiare delle cose e degli uomini? Donde ci viene questo destino che ci fa misurare senza che abbiamo contezza di ciò che misuriamo? Il sonar l’organo non s’impara da quelli che sanno far organi, ma da chi li sa sonare. E se poi colui che è stato il primo, unico e ammirabile esplicator della forma sillogistica, della dimostrazione, degli elenchi, dei modi di conoscere i sofismi e i paralogismi, e in somma di tutta la logica non ha saputo produrre a questo proposito che argomenti manchevoli e inconcludenti, quale altro ingegno potrebbe avventurarsi per siffatti impervi cammini che non fosse tosto in gravi ambasce, onde ha ragion d’essere l’arrendevolezza che dimostra all’inverso di questi immani problemi chi li affronta con l’humilitade che qui sempre si convenne?
Numitor aveva preso a camminare avanti e indietro per la saletta, e passava velocemente davanti ai suoi tre ascoltatori, che movevano la testa in sincronia ora a destra ora a sinistra per seguirlo. Nei loro occhi si leggeva un certo disagio.
– Or che venuto sono a parlar di logica, iscuso me di ciò, che poco posso parlar di quella, per la sua soperchianza, e certo chi gitta via la sapienza e la dottrina è infelice, e l’infelicità è privazione, ad esempio privazione del bene, o del Paradiso, o di Dio, che è lo stesso. Onde con ciò sia cosa che conoscere di Dio e dell’Universo e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato sapere. E per questo la dubitazione è assoluta.
Numitor non parve molto soddisfatto di questa conclusione, perché si mise a camminare ancora più svelto, in un mulinar di gambe e di braccia, brandendo sempre il gesso, ma passando davanti all’ampia lavagna senza vederla. Sulla sua nera superficie biancheggiava sempre la curvatura dello spazio, ma pareva che lungo quella curvatura Numitor si allontanasse per l’Universo a velocità fantastica.
– Ma un altro punto è da esaminare, il numero, numar, e benché la teoria numerelor irationale este o creatia a matematicii moderne, prima lumina inventa sunt par le grec Pitagora le quel en parla sale lectii asupra functiilor analitice. Antichitatea non a conoscunt l’irrazionale, se non quando in geometria timpulni on trouva la radice de deux ou de treis tria. Mais ie ne sçai en quelle foy me mettre et à part tout, moy ie veux esprouver la verité et ma leaulté en la bonté de Dieu.
Dopo questa incoerente professione di fede e di lealtà, l’astronomo si arrestò, e dai suoi occhi cominciarono a scendere delle lagrimucce delle quali peraltro egli non pareva far gran caso. I suoi tre colleghi, sempre seduti ai loro posti, si lanciavano occhiate perplesse e allarmate. Ma l’oratore non aveva finito. Si drizzò in tutta la sua magrezza e intonò con voce profonda:
– «O Dio, Tu che creasti il mondo, Domine eterno di noi tutti, che la Tua lode risuoni per l’Universo. La Tua gloria è grande, portata su ali possenti» e Keplero finiva così l’opera sua. Quanto a me, contemplo il segno sa, la collana onsekh e il simbolo del cuore. Poiché i dodici segni dello Zodiaco sono attribuiti alle parti essenziali del corpo: le vertebre della nuca al Toro, Taurus, il cuore e il petto al Leone, Leo, il ventre alla Vergine, Virgo, le cosce allo Scorpione, Scorpio, i piedi ai Pesci, Pisces, e via enumerando. E secondo il vecchio adagio Daimon est Deus inversus, rovesciando il triangolo e sovrapponendolo all’altro dritto si ottiene l’esagramma o triangolo divino nella sua doppia natura. E gli Antichi, incomparabili maestri d’ogni dottrina, hanno designato i quattro elementi mediante i quattro stati fisici: caldo, freddo, secco e umido. E sempre si deve ricordare che il Fuoco, l’Aria, l’Acqua e la Terra non sono il fuoco ordinario né l’aria che respiriamo né l’acqua che beviamo né la terra che tutti ci accoglie alla fine della nostra vita. Amen.
Col passare del tempo cominciavano a risonare per l’Osservatorio i rumori del giorno: passi nei corridoi, porte che venivano aperte e chiuse, qualche richiamo, gli squilli del telefono. Ma nella saletta dei seminari, dove Numitor stava rovesciando sui suoi atterriti colleghi il cielo e la terra, tutti quei suoni giungevano affievoliti, come se provenissero da un altro mondo. L’astronomo trasse un gran sospiro, s’inumidì le labbra e continuò febbrilmente:
– E gli Antichi dissero che i tre principi di tutte le cose sono lo Zolfo, Soufre, il Mercurio, Mercure, e il Sale, Sel, et dans le Soufre il y a du Feu et de l’Air, dans le Mercure de l’Air et de l’Eau, et dans le Sel de l’Eau et de la Terre et les couleurs en sont Rouge et Jaune, à voir Orange, puis Jaune et Bleu, à voir Vert et enfin Indigo et Rouge, à voir Violet. E per tornare al tema del cielo, ouranós, esso alberga i seguenti corpi incorruttibili e perfetti: Sole, Mercurio, Venere, la Terra e la Luna e poi Marte, Giove e Saturno. Giove è assimilato allo stagno che è color d’Indaco, Marte è il ferro, come Seth, l’osso di Tifone, per cui Marte ha un bagliore rossastro. Il mercurio è assimilato a Mercurio che è verde, come dice il nome, il rame a Venere che è azzurra come la splendida dea Hathor. Il piombo è Saturno, di colore violetto, e il piombo si dice djeouty, che è il Neter Toth, padrone del tempo, chronos, per cui eccoci al punto di partenza, o quasi, poiché, come disse Platone, l’armonia è fatale.
Numitor sollevò le braccia verso il cielo, o soffitto, e guardando la punta delle sue lunghissime dita, cominciò a cantilenare con voce profonda:
– Seguitando le idee dei Pitagorici, affermo che l’uomo, imitando il Creatore, per un istinto naturale sa con le note della propria voce fare la stessa scelta e osservare la stessa proporzione che Dio ha voluto mettere nell’armonia generale dei moti celesti. E Saturno fa il basso con Giove, Marte è il tenore, Venere il contralto e Mercurio è il soprano.
Via via la sua voce recitante si era fatta più acuta, e le ultime note erano state emesse con tono altissimo e quasi isterico. Frattanto l’uscio della saletta si era aperto e si era affacciato uno degli assistenti di Proakis: vedendo i tre illustri professori che guardavano a bocca aperta quella specie di pazzo frenetico che cantava su tutti i registri della scala cromatica, dal basso più profondo al falsetto più raccapricciante, l’assistente restò basito, avanzò meccanicamente e, lasciando la porta spalancata, andò a sedersi dietro Rune. Numitor non si accorse neppure del suo ingresso, e proseguì senza più cantare, ma scandendo i versi col levare alto il ginocchio e col picchiare sonoramente la scarpa sul pavimento:
    -In primis animalibus inice mentem
    invenies sic montivagum genus esse ferarum
    sic hominum genitam prolem, sic denique mutas
    squamigerum pecudes, et corpora cuncta volantum.
    Quapropter caelum simili ratione fatendumst,
    terramque, et solem, lunam, mare, cetera quae sunt
    non esse unica, sed numero magis innumerali.
Peraltro, o Signore della Terra, vedendo l’esercito di Dhartarastran pronto, la cui insegna è Hanuman, alzando il suo dhanuh disse a Krishna queste parole: «Il duplice cammino fu dato da me nel principio, il nistha della ginana a colui che contempla e il karmayogena a colui che agisce.
    Divi surya ƒsahasrasya bhaved yugapad utthita
    yadi bhad sadrsi sa syad bhasas tasya mahatmanah.
Alla porta si erano affacciati due o tre studenti e guardavano sbalorditi Numitor che declamava:
– Tatrai kastham jagat krtsuam pravibhatktam anekadha apasyad devadevasya sarire pandavas tada.
Sempre tenendo gli occhi fissi sul collega, Proakis si alzò lentamente in piedi, scostò la sedia e cominciò a indietreggiare verso la parete di fondo. Gli studenti, che prima avevano abbozzato qualche sorriso divertito, ora guardavano affascinati e quasi impauriti l’insigne astronomo che recitava con voce appassionata e delirante incomprensibili versi.
La saletta a poco a poco si riempì di gente. Stipati fino all’inverosimile, avevano lasciato solo un po’ di spazio, una specie di alveolo o bolla, dove Numitor si dimenava, corrugando la fronte, congiungendo le mani e piegandosi sulle ginocchia. Dalla sua bocca continuava a uscire un profluvio di preghiere, di invocazioni, di epifonemi, di barbugliamenti, di esclamazioni, di sproloqui, di perorazioni:
– Vedo tutti gli dèi, o Dio, nel Tuo corpo e moltitudini di esseri di tutti i gradi e Brahma, il Signore, saluto sul loto e tutti i Rishis e i Serpenti celesti. Io vedo Te, infinito di forme su tutti i Tuoi lati, con innumerevoli braccia, seni, bocche e occhi: e non vedo né la Tua fine, né il mezzo, né il principio, o Signore dell’Universo, o Forma Universale. Ti vedo col diadema, con lo scettro e col disco, un bagliore abbacinante s’irradia per ogni dove, non posso sostenerlo, si diffonde tutt’intorno come le fiammate di un sole incommensurabile…
    tvam aksaram paramam veditavyam
    tvam asya visvasya…»
A questo punto l’astronomo piegò il suo corpo segaligno, s’inginocchiò, congiunse le mani, stette per un attimo in silenzio, poi appoggiò le palme al pavimento e cominciò ad emettere suoni vaghi, pieni di empito e di passione, come un animale che si lamenti. I suoni si trasformarono poi in un barrito, da cui emergevano distorte e confuse le parole:
– Draghi ruggenti Tiamatha vestito di terrore li ha avvolti di splendore, li ha fatti simili a dèi, sicché colui che li guarda muoia di spavento ed i loro corpi impennati nessuno possa respingere, esso ha creato la Vipera, il Serpente, la Sfinge, il Leone, il Cane Folle, l’Uomo-Scorpione, i Demoni Tempestosi, il Drago Volante, il Centauro, il Pradiptam Patangah, e ha creato il Kalah potente che distrugge il Ksaya… Uuuh! Uuuh!
    Ash nazg durbatuluk, ash nazg gimbatul,
    ash nazg thrakatuluk, agh burzum-ishi krimpatul!
Le sue urla riempivano la saletta e parevano recare in sé la forza primitiva dei mostri preistorici che vagavano sulle rive dei mari del Mesozoico; parevano rievocare le passeggiate notturne dei rettili del Giurassico sotto un cielo illune e tormentoso di stelle. Sempre ululando, Numitor stramazzò a terra, tenendosi il ventre con le braccia ossute, i capelli sempre più dritti sul cranio oblungo, le gambe scosse da un tremito convulso. Una ragazza con gli occhi sbarrati urlò:
– Ma sta male! Aiutatelo!
A quel grido la piccola folla si riscosse, subito due o tre studenti si lanciarono su Numitor, lo afferrarono da più parti, lo sollevarono; Proakis gridò:
– Di là, portatelo di là sul divano, nel mio ufficio! Tu, Rune, vai a telefonare che mandino un’ambulanza.
Dietro gli studenti che trasportavano il lungo astronomo si formò un piccolo corteo. Il viso di Numitor si contorceva in smorfie orribili, dalla bocca gli usciva un filo di saliva che luccicava debolmente, i denti erano scoperti e apparivano curiosamente grandi e giallastri, nella strozza gli gorgogliava un suono ritmico, come un sospiro soffocato, un richiamo ancestrale, un anelito che non riusciva a formarsi. Gli studenti avevano ancora negli orecchi quelle grida incoerenti e vedevano gli azzurri mari del Paleozoico, le buie foreste del Carbonifero, le pioggie diluviali che avevano preceduto il formarsi della vita nei fumiganti oceani primordiali…
Numitor viaggiava all’indietro nel tempo, alla ricerca delle verità dell’universo, lungo le geodetiche dello spazio che si allontanavano in tutte le direzioni, scintillanti come rotaie. Viaggiava aggrappato ad un effimero raggio di luce, passava accanto ai mondi turbinosi e silenti, alle fornaci dove l’idrogeno splendente si tramuta in elio, vedeva le chiazze vertiginose dei buchi neri, la luce abbacinante delle supernovae, gli sciami splendenti delle comete; sospinto dal suo cuore presago e dalle leggi della gravità, si dirigeva verso un punto delicato e sensibile, che ancora tremolava per il ricordo di una lontana catastrofe che vi era avvenuta, e come in un cosmico otto volante seguiva docilmente la curvatura dell’Universo, che, ora sì lo vedeva chiaramente, era, era… era… com’era dunque la curvatura? Non ne era proprio sicuro, gli pareva e non gli pareva… era…
– Ormai non credo che l’ambulanza servirà, dottor Proakis.
Il viso tormentato di Numitor sembrava essersi disteso e l’ombra di un sorriso buono gli piegava le labbra, come se dentro gli si fosse allargata una gran pace.