All’Iraq serve un Presidente che non sconvolga l’equilibrio dei poteri

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All’Iraq serve un Presidente che non sconvolga l’equilibrio dei poteri

Alcuni temono che la scelta del nuovo primo ministro dell’Iraq si riveli una delle più insolubili controversie per la creazione di un nuovo governo che conduca al ritiro dei soldati americani. Ma nelle trattative che si sono svolte negli ultimi mesi, la presidenza, considerata una carica estremamente formale, è emersa come una disputa crescente, che minaccia di sconvolgere gli ancora deboli e ambigui accordi settari, di potere ed etnia.

Quella sulla presidenza è stata l’ultima linea di demarcazione in una mappa politica che da sabato è diventata più confusa, dopo che i risultati finali delle elezioni della scorsa settimana hanno visto la coalizione del premier Nuri Kamal al-Maliki – i cui seggi compongono il singolo blocco di maggioranza in parlamento – passare in testa a Baghdad. Ma i suoi rivali sembrano prendere piede, rispettabilmente, nella capitale e a Ninive e nelle altre province a maggioranza arabo-sunnita e nelle regioni rurali sciite nel sud dell’Iraq.

La vicinanza di popoli così diversi – con Mr. Maliki vincente grazie a un largo consenso nei primi giorni dello spoglio elettorale che non si è ancora concluso – sottolinea la complessità dei negoziati, da cui è possibile che nessun partito otterrà nulla che possa assomigliare a un mandato. L’assenza di un vincitore chiaro nei primi risultati e il modo caotico con cui sono stati comunicati dai funzionari elettorali, sembra aver incoraggiato una serie di manovre atte a far leva su un panorama che molti politici ritengono pieno di opportunità. Forse nessuna carica è pronta per essere occupata tanto velocemente quanto la presidenza.

"Dobbiamo ricordare che la scelta del presidente è la chiave e il passaggio cruciale di questo processo," ha detto Ibrahim al-Sumaidaie, un analista politico e candidato al voto di domenica scorsa "Credo che saremo testimoni di un lungo, complicato processo di negoziati e ritardi".

Nella contrattazione sulla formazione del governo precedente, formato nel 2006, i tre posti di maggior rilievo erano stati divisi lungo linee etniche e settarie: i primo ministro agli sciiti, la presidenza ai Curdi e il presidente del parlamento ai sunniti. Il processo durò più di cinque mesi ed esasperò le divisioni in Iraq. Ma la Costituzione non pone come condizione questa divisione lungo linee etniche e settarie. E mentre l’identità rimane l’asse della politica irachena, molti si rifiutano di guardare a un qualsiasi accordo come una prerogativa percorribile.

Fino ad ora, solo la posizione del primo ministro, la carica di gran lunga più potente, sembra essere destinata a un arabo sciita. Maliki e Ayad Allawi, uno sciita laico ed ex primo ministro ad interim, sembrano essere i favoriti. Nell’ultima settimana, tuttavia, la classe politica ha avanzato una raffica di nomi per la presidenza – da un rappresentante della minoranza turkmena, la cui rilevanza nella politica nazionale proviene dalla sua autorevolezza nella città divisa di Kirkuk nel nord dell’Iraq, a un leader tribale sunnita diventato celebre per il ruolo svolto dal fratello nella difesa dall’insurrezione nell’Iraq occidentale. Anche Adnan Pachachi, un parlamentare di 86 anni, ha espresso il desiderio di finire la sua carriera diventando presidente.

Ma le rivendicazioni più stridenti sono arrivate dal vicepresidente Tariq al-Hashimi, un arabo sunnita, e dall’attuale presidente, Jalal Talabani, il candidato curdo, la cui natura benevola lo ha reso una scelta di compromesso per un posto che lui stesso, con un sorriso di disapprovazione, ha definito onorario. Le ambizioni pubbliche di Hashimi per la carica hanno già acceso una disputa con i funzionari Curdi, desiderosi di mantenere un ruolo centrale nella politica di Baghdad. Fuad Hussein, il capo dello staff di Massoud Barzani, presidente della regione semiautonoma del Kurdistan, ha giudicato la situazione "ingiuriosa per il popolo curdo, come se i Curdi non potessero proporre un presidente in questo Paese o non potessero ambire a quella posizione".

La scorsa settimana, un comunicato dell’ufficio di Barzani è andato oltre, affermando che se il prossimo presidente dovesse essere un sunnita questo riaccenderebbe dei sospetti di "sciovinismo e di superiorità etnica" che fanno tornare alla mente i giorni del Presidente Saddam Hussein. Sabato, Hashimi si è scusato per le offese ma ha ribadito la sua ambizione. "E’ un diritto del vice presidente di esprimere la sua volontà di diventare Presidente della Repubblica, in futuro," si leggeva in una comunicazione proveniente dal suo ufficio. Hashimi si è anche chiesto quanto "Insistere su una particolare persona o particolare etnia" per la carica di presidente "aderisca alla Costituzione".

L’intensità della discussione in atto riflette alcuni dei fattori di maggiore divisione dell’Iraq di oggi, dagli sciiti impauriti che un aggressivo presidente sunnita possa indebolire la loro decisiva influenza sulla politica del Paese, ai sunniti che ambiscono a recuperare importanza attraverso una carica che, sebbene simbolica, potrebbe servire come pulpito per dar sfogo alle preoccupazioni della comunità.

Spesso si sente dire che gli arabi sunniti rivendicano un presidente arabo, in un Paese con una chiara maggioranza araba, che contribuisca a ripristinare le relazioni, ora a brandelli, tra l’Iraq e gli altri stati arabi. "Preferisco che sia un arabo," ha detto Muqdad Jaafar, un professore di educazione fisica all’Università di Baghdad. "Siamo un paese arabo, circondato dal mondo arabo. Hashimi ha buone relazioni con i nostri vicini". I Curdi puntano invece con orgoglio alla presidenza, intendendola come un riconoscimento della diversità in Iraq, dopo decenni di un’ortodossia statale che ha imposto un’identità araba al paese. Ma loro stessi risultano divisi sulla questione.

Un gruppo dissidente dello stesso movimento di Talabani si è opposto alla sua candidatura. Anche se i curdi mantengono un’opzione sulla carica, potrebbero non riuscire ad accordarsi su qualcuno che abbia la stessa fama di Talabani. La posta in gioco è alta. In un accordo provvisorio, l’Iraq ha ottenuto un Consiglio di Presidenza, composto dal presidente e due vice presidenti, ognuno con il potere di veto. Consiglio che, però, non è previsto dalla Costituzione. Alcuni hanno chiesto di tenere in vita l’accordo, ma se così non fosse, la presidenza potrebbe assumere un profilo più alto, semplicemente riunendo i poteri nelle mani di una sola persona.

In effetti, uno dei punti di forza di Talabani era la sua reticenza a prendere posizioni di forza in un Paese il cui processo politico ha mostrato una notevole tendenza allo stallo. "Per essere onesti, gli iracheni hanno visto in Talabani più di un curdo", ha detto Barham Salih, il primo ministro della regione curda e alleato di Mr. Talabani. "Hanno visto in lui una persona che ha la capacità di unire le varie fazioni in Iraq".

Traduzione di Giorgia Avaltroni e Bernardino Ferrero

Tratto da The New York Times