All’Italia non resta che attaccarsi a Trump

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All’Italia non resta che attaccarsi a Trump

07 Luglio 2017

Non cambia il mandato della missione Triton, no all’apertura di altri porti nel Mediterraneo per accogliere i migranti, stop sui nuovi fondi. Sono tanti i ‘no’ incassati dall’Italia al vertice di Tallin. In particolare da Germania, Olanda e Belgio. La Spagna si è chiamata fuori con grazia sostenendo di avere porti ‘già troppo sotto pressione’, mentre la Francia ha manifestato una profonda preoccupazione, e niente di più. In Estonia, ieri mattina, si è riunito il Consiglio informarle dei ministri degli Interni dei 28 paesi membri dell’Ue, e come principale punto all’ordine del giorno c’era l’emergenza migratoria in Italia. Ma come si sospettava, il vertice è stato un vero tuffo nel ghiacciato Mar Baltico per il Belpaese. 

L’Italia è nella bufera da oltre sei anni, esattamente dall’inizio delle primavere arabe, eppure crede ancora poco al fatto che il problema sia a terra, in Libia, piuttosto che nel Mediterraneo. Oggi la Libia è una terra di nessuno. Per intenderci, la scorsa settimana sono stati rapiti 7 funzionari dell’Onu e le loro 12 guardie del corpo, e sono stati liberati in cambio del rilascio di tre trafficanti di droga. E’ questo il Paese dove il governo di Serraj non ha nemmeno più il controllo di Tripoli e con cui l’Italia fa accordi bilaterali sull’immigrazione. Il momento epocale che l’Italia sta vivendo sulle proprie coste è il prezzo della pessima politica estera europea ideata nella cabina di comando di Sarkozy, complici Lady Hillary e Obambi

E adesso che un po’ tutti i partner europei, seppur tacitamente, lo hanno capito, cercano di essere più concreti e quindi più inclini alla mai demodé tecnica della pacca sulla spalla e niente più. E’ così che da Tallin Minniti, il Pd e tutta la classe dirigente sono tornati con la coda tra le gambe, con dichiarazioni e azioni che non risolveranno nessun problema. Stiamo pagando il prezzo della politica estera dei governi Monti, Letta e Renzi. A salire per un istante sulla macchina del tempo ci si accorge di tutti gli errori commessi, come, per esempio, dell’imprudenza e della obsoleta dose di furbizia della sinistra italiana – che si trasforma puntualmente in un boomerang – con cui il governo Renzi condusse le trattative per le operazioni Triton e Sophia. Anche perché Emma Bonino ieri ha spiegato bene il punto: “Nel 2014-2016 che il coordinatore fosse a Roma, alla Guardia Costiera e che gli sbarchi avvenissero tutti quanti in Italia, lo abbiamo chiesto noi, l’accordo l’abbiamo fatto noi, violando di fatto Dublino”. Erano convinti che l’Italia avrebbe tratto vantaggio dalla gestione, ma la realtà ha sempre un sapore diverso dalle aspettative. Nel frattempo il renzismo ha chiesto flessibilità all’Europa, e l’ha ottenuta. Peccato, però, sia stata piuttosto che per investire, per giocare la partita politica tra finanziamenti per la spesa elettorale e il salvataggio accorato (ma tardivo, e quindi più costoso) delle banche venete, perdendo di vista i punti più importanti da segnare nella partita: immigrazione, lavoro e crollo demografico. E adesso?

A non troppi chilometri di distanza, e poco dopo la chiusura del vertice in Estonia, il presidente Trump ha tenuto il suo atteso discorso a Varsavia. E con questo non usciamo fuori tema, anzi il passaggio è estremamente denso di significato. Il Don è atterrato nella terra di Giovanni Paolo II tra non pochi tappeti rossi: la Polonia, e Varsavia, sono in festa, esuberanti ed orgogliose di ospitare il presidente Usa. ‘Make Polonia Great Again‘, si legge per le strade, rubando e omaggiando il motto vincente delle presidenziali repubblicane 2016. Gazeta Wyborcza, il più importante quotidiano polacco celebre per le sue posizioni anti comuniste dopo la fine del regime, sono giorni che prepara l’arrivo del Don con titoloni entusiasti, evidenziando l’appassionata fiducia che dal gruppo di Visegrad ai paesi dell’ex cortina di ferro, c’è nel presidente Trump. Omaggiato proprio da quelli che oggi dovrebbero più guardare con ostilità a un presidente accusato di voler essere filo russo. Eppure, proprio loro che più si sentono minacciati dall’ex Unione Sovietica, lo accolgono a braccia aperte.

La Polonia ha un ruolo notevole nella politica americana del Ventunesimo secolo, è la porta verso la Russia, è il cuscinetto di contenimento di Mosca e Berlino, è una forza nazionalista e fortemente orgogliosa del suo essere occidentale, ed è pronta a schierarsi contro ogni sorta di minaccia orientale, ma soprattutto è nel cuore dell’Europa. E Trump lo sa bene: la Polonia può diventare il “cuore geografico” dell’Europa e il popolo polacco “la sua anima”, ha detto nel discorso pronunciato oggi a Piazza Krasinski – luogo non casuale essendo il simbolo dell’insurrezione contro l’occupazione nazista – davanti a migliaia di polacchi. Un discorso così forte e denso di significati il tycoon non lo pronunciava da tempo. Ha voluto lodare lo spirito dei cittadini polacchi capaci di lasciarsi alle spalle le difficoltà e sottolineare come, al momento, l’Europa non si trovi più di fronte alla minaccia del comunismo, ma l’Occidente sta combattendo nuove “minacce terribili”. “Le affronteremo e vinceremo”.

I diversi gruppi estremisti, spesso espressione del “terrorismo islamico radicale“, minacciano il “modo di vivere” dell’Occidente e per questo motivo il presidente ha voluto difendere la misura adottata dalla sua stessa amministrazione volta a limitare l’immigrazione da alcuni paesi arabi e di religione musulmana. E proprio sull’immigrazione, Polonia e Usa, sono perfettamente in sintonia. Ma oltre a promettere che gli Stati Uniti non sfrutteranno – e impediranno ad altri paesi di agire in tal senso – mai l’energia come mezzo coercitivo nei confronti dei paesi dell’Europa centrale e orientale, The Donald ha rivolto un accorato appello alla difesa dei valori dell’Occidente. “Sono qui oggi non solo per fare visita ad un antico alleato, ma per indicarlo ad esempio per coloro che cercano la libertà e che vogliono trovare il coraggio e la volontà per difendere la nostra civiltà”. Aggiungendo, “la fondamentale domanda del nostro tempo è se l’Occidente vuole sopravvivere”. La battaglia per la difesa dei valori occidentali, è contro il terrorismo islamico, certo, ma anche contro i  nemici interni, come la burocrazia, ha concluso il presidente Usa, e “non comincia sui campi di battaglia, ma comincia nelle nostre menti, con la nostra volontà, nelle nostre anime”.

Un discorso, quello di Trump, che certifica una presidenza al di sopra delle aspettative dei giornaloni. Abile nel saper gestire persino le divisioni che attraversano la stessa Europa. In un contesto di grandi cambiamenti, infatti, il Don si dimostra capace di sparigliare le tensioni, e perché no, anche le carte, ma senza trucchi da illusionista. Imprevedibile, certo, ma non in maniera ottusa, ed è per questo che cercare di “giocare il suo gioco” è, a quanto pare, la missione che si sono dati i Paesi del cosiddetto corridoio dei “tre mari” – Baltico, Adriatico e Nero. E l’Italia? Tentenniamo, snobbiamo, proviamo a fare i fighetti e preferiamo il selfie e le cene con Obama, piuttosto che una viva e attenta collaborazione con l’attuale inquilino della Casa Bianca. Intanto gli orologi girano, le rotte cambiano, le nostre coste tremano, e le brutte figure aumentano in maniera esponenziale. C’è persino una fetta dell’America che sogna un ruolo importante dell’Italia nello scacchiere del Mediterraneo. Ma alla nostra élite l’idea non piace. Andiamo Italia, attaccati a Trump, è la speranza che ti resta.