All’Italia serve un nuovo Risorgimento e non la celebrazione del vecchio
28 Novembre 2010
di Daniela Coli
Da mesi il Risorgimento è al centro delle pagine culturali dei giornali (soprattutto del Corriere), di pubblicazioni, convegni, di film come “Noi credevamo”, con Luigi Lo Cascio quello della “meglio gioventù”, con commenti entusiasti dei lettori di Repubblica.
È la sinistra a essere maggiormente interessata al Risorgimento, pressata dal bisogno di inserire la nazione nella sua lista dei valori, con retoriche ammuffite come quella del patriottismo costituzionale di Rusconi, roba vecchia ormai per Habermas, per cui invece si sbracano i bimbos futuristi nei talkshow. L’operazione “una nazione per la sinistra” è cominciata con Ciampi (il presidente Sciampi, come lo chiamava Veneziani), ed è continuata con Napolitano, che telefonò subito a Galli della Loggia, come ha riportato Dino Messina nel suo blog sul Corriere il 21 luglio 2009, dopo il solito articolo dello storico contro Berlusconi, reo di aver fondato il partito di plastica e di non celebrare comme il faut lo “snodo decisivo della storia d’Italia e della sua identità”.
L’esigenza del recupero della nazione nasce a sinistra sia da ragioni politiche immediate, la polemica contro la Lega accusata di “spezzare l’Italia in due” col federalismo, sia dalla necessità di riconfigurare il vecchio Moloch che fu il Pci, ormai frammentato in tanti partiti regionali, con leader diversi come Vendola, Bersani e Chiamparino. La sinistra ha tentato per 60 anni d’imporre la Resistenza come evento fondante della Repubblica, ma l’esaltazione dei partigiani ha prodotto le Brigate rosse, mentre la fine del comunismo in Russia l’ ha privata della bandiera dell’internazionalismo e ha bisogno di qualcosa a cui aggrapparsi.
Il Risorgimento, però, fu mitizzato dal fascismo, che si presentò – si pensi a Giovanni Gentile e a Gioacchino Volpe – come suo erede. Non senza qualche valida ragione. “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto”, pare abbia detto al re Mussolini, al termine della marcia su Roma. Vittorio Veneto fu una vittoria decisiva per la prima guerra mondiale, fece collassare l’esercito austro-ungarico, e la guerra era stata combattuta in nome della liberazione di Trento e Trieste: in nome del Risorgimento. Fu con l’esaltazione del Risorgimento che il fascismo riuscì a fare diventare la patria un valore. Il patriottismo si sciolse però come neve al sole soprattutto negli intellettuali che erano stati quasi tutti ardenti fascisti quando fu chiaro nel ’42-‘43 che l’Italia avrebbe perso la guerra.
Dopo il 1945 il Risorgimento uscì di scena e furono proprio gli storici comunisti a metterlo sotto accusa, usando la tesi gramsciana del Risorgimento come rivoluzione mancata. Per Gramsci non si doveva fare il Risorgimento, ma la rivoluzione francese: oggi sembra una battuta stramba. A difendere il Risorgimento rimase solo Rosario Romeo, uno storico liberale, di destra, diremmo oggi, anche se lui non avrebbe accettato l’etichetta “destra” allora sinonimo di fascismo, capitalismo e imperialismo.
Romeo dimostrò la miseria gramsciana: l’Italia non era nella condizioni della Francia del 1789 perché non aveva un capitalismo sviluppato, e – aggiungiamo – perché solo nel 1861 ebbe il primo re e a nessuno sarebbe venuto in mente di tagliargli subito la testa. Dopo il ’68 la nazione scompare del tutto dalla cultura e dalla politica italiana. Riappare con Renzo De Felice, che nel 1965 comincia a scrivere la storia dal fascismo per Einaudi e, pur tra mille contestazioni, si ricomincia a parlarne sottovoce.
Con la caduta del muro di Berlino, negli anni ’90, la questione della nazione – anzi, dell’”identità” – diventa centrale, perché si discute del fascismo, l’unico periodo di storia italiana che appassiona gli italiani, quasi un’ossessione. Di fronte al Duce, mitizzato fino all’inverosimile nell’immaginario italiano, i protagonisti del Risorgimento scompaiono.
L’idea di nazione è senza dubbio legata al fascismo nella mente degli italiani, perché se non lo fosse stata, non si capirebbe perché la sinistra si sia accanita per decenni a distruggerla, insieme al Risorgimento. Però, anche quando, dopo il ‘45 e il ’68, la nazione era sinonimo del male assoluto e non si doveva neppure nominare la patria, la maggioranza degli italiani, aveva il sentimento e anche il problema della nazione. Dico “sentimento”, perché la nazione era avvertita confusamente ed emotivamente, qualcosa che si era perso e di cui non ci si rassegnava a fare a meno. Era un sentimento che veniva espresso da Rosario Romeo, quando scriveva che il modo in cui era finita la guerra, metteva seriamente in crisi l’idea che l’Italia fosse una nazione.
Ogni discussione sulla nazione in Italia era ed è sempre stata inevitabilmente legata al fascismo, non al Risorgimento: per negarla, come facevano i comunisti, come realtà superata nell’internazionalismo comunista o per affermarla come sentimento in un paese, che dopo il 1945 aveva perduto la sovranità. Quindi, se non ci fosse stato il fascismo, che ha esaltato il Risorgimento per rendere familiare la patria agli italiani e se la guerra non fosse finita com’è finita, non avremmo avuto interminabili discussioni sulla nazione e, oggi non celebreremmo il Risorgimento. Magari, festeggeremmo l’ultima grande vittoria come l’Inghilterra, la Russia e gli Stati Uniti o, come la Germania, festeggeremmo la terza riunificazione, di vent’anni fa, con la caduta del muro di Berlino.
Mentre gli ultimi retori di quella che fu la baldanzosa intellighenzia si sbracciano a magnificare il Risorgimento per cambiare pelle ancora una volta, in un libro recente, lo storico di sinistra Alberto Maria Banti afferma coerentemente alla vulgata gramsciana che il Risorgimento veicolò nel fascismo un’idea di nazione fondata sulla terra e sul sangue. Ora, in tutti gli Stati nazionali territoriali fondati tra il ‘400 e l’800, compreso lo Stato d’Israele fondato nel 1948, la nazione è intesa proprio come comunità di terra e di sangue e non è quindi una caratteristica esclusiva del fascismo. A parte ciò, il libro di Banti dimostra il nesso inequivocabile tra Risorgimento e fascismo e, quindi, come tutte le nostre discussioni sul Risorgimento siano in rapporto col fascismo. Ha comunque ragione Banti quando dice che nel Risorgimento c’è qualcosa di posticcio e polveroso, perché non è l’evento decisivo della storia italiana. Per Luigi Barzini jr. in The Italians, un libro del 1964, non la rubrica di Severgnini, durissimo con gli italiani per come era finita la guerra, l’evento deciso dell’identità italiana non era il Risorgimento, ma la battaglia di Fornovo sul Taro, del 6 luglio 1495, dove la Lega italiana fu sconfitta da Carlo VIII. Se quel giorno a Fornovo gli italiani fossero riusciti a battere Carlo VIII avrebbe scoperto, per Barzini jr. l’orgoglio di essere un popolo unito e la voglia della libertà e dell’indipendenza. Invece a Fornovo persero, non per vigliaccheria, ma perché i principi italiani combatterono ognuno per se stesso.
I nostri storici contemporanei sono purtroppo digiuni di storia moderna e di una adeguata preparazione di scienza politica e si limitano a ricamare sulla nazione, che non è un sentimento buono o cattivo, ma una categoria politica e giuridica come lo Stato. Gli Stati nazionali territoriali furono fatti dal ‘400 all’800 sui campi di battaglia, ma soprattutto attraverso importanti dibattiti sull’organizzazione dello Stato, dove si impegnarono giuristi e scienziati politici. Il sentimento non basta a fare né una nazione, né uno Stato, e neppure il fatto che l’Italia sia stata l’aspirazione di grandi letterati, poeti e musicisti. Una nazione e uno Stato non sono una costruzione letteraria o linguistica, e il nostro problema principale è che la costruzione di uno Stato in Italia non c’è mai stato. Neppure il fascismo, che ebbe il culto dello Stato e costrinse tutti a scriverlo con la esse maiuscola, riuscì a costruirlo come organismo giuridico-politico: lo stesso stato etico teorizzato da Gentile, un filosofo del tutto inesperto di diritto, a differenza di Schmitt, dimostra questa grave carenza italiana.
Il Risorgimento, poi, fece l’unità d’Italia a colpi di trattative diplomatiche con la Francia e l’Inghilterra, con il blitz garibaldino al Sud, ma non si pose il problema di andare a unificare politicamente un paese che aveva tante diverse realtà e tradizioni statuali. Si pensi soltanto al dogato della Serenissima, alla Repubblica di Genova, alla signoria dei Medici e al Granducato di Toscana, agli Stati della Chiesa, al Regno delle Due Sicilie. Come minimo sarebbe stato necessario uno Stato federale o confederale, che avrebbe almeno evitato la breccia di Porta Pia e la lacerazione coi cattolici, così come il blitz garibaldino e tutta la retorica meridionalistica sulla colonizzazione che ha deresponsabilizzato le classi dirigenti del Sud, incapaci dopo 150 anni d’Italia unita perfino di gestire la mondezza.
Il sentimento che ora si viene veicolando in questa iperbolica celebrazione del 150° anniversario corre il rischio di un fallimento più tragico del fascismo. Il sentimento non basta a cementare uno Stato e per questo oggi occorre porsi concretamente il problema di come organizzare le istituzioni italiane, dove non è mai stato neppure chiaro chi comanda: il re o il Duce, il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio. Gli inglesi fecero una rivoluzione per decidere se comandava il re o il parlamento, da noi il presidente della Repubblica oggi ha il potere di fermare una legge, un potere che non ha mai avuto nessun sovrano inglese dal 1700. Eppure Napolitano, che interviene continuamente su tutto, come se fosse Roosevelt o De Gaulle, è soltanto il presidente di una repubblica parlamentare, un sistema di cui stiamo avvertendo proprio in questi mesi tutta l’inadeguatezza a governare uno Stato europeo.
Nella più grave crisi della democrazia rappresentativa degli ultimi anni, leader ambiziosi di piccoli partiti come Casini o addirittura come Fini, eletto Speaker dalla maggioranza che ha vinto le elezioni, tentano di buttare giù il governo con intrighi che ricordano paesi dell’ex Terzo Mondo. Chi sventola tricolori contro il federalismo, non capisce che chi ha tutto da perdere esasperando il Nord e spingendolo alla secessione è proprio il Sud, perché è più povero. A chi sta a cuore che l’Italia non si spezzi in due col federalismo, basta varare una repubblica presidenziale e dotarla di strumenti, che non possano mettere in crisi il paese, perché una minoranza del partito che ha vinto le elezione per oscure ambizioni decide di sfiduciare il governo, mentre infuria una guerra monetaria da fare tremare gli Stati più forti e mentre il nuovo scenario multipolare internazionale esige responsabilità e coesione. La tanto decantata Costituzione antifascista non ha neppure previsto, come accade in altre democrazie rappresentative, che le opposizioni non possano deporre una mozione di sfiducia senza indicare il nome della persona con cui vorrebbero sostituire il capo del governo.
Più di rievocazioni del Risorgimento – e chissà quante ne dovremo sorbire da ora al 2011 – oggi occorre che la parte più seria dell’Italia si ponga il problema di rifondare le istituzione italiane. Non stiamo assistendo all’autunno del Cav, moderno Macbeth assediato dalla foresta di Birnam, come ha scritto Galli della Loggia, non stiamo assistendo al tentativo di resurrezione della prima repubblica, che pure ha avuto una sua logica e anche una funzione nel bipolarismo Usa-Urss. Nel nuovo scenario internazionale, non sono più permessi governi che durano sei mesi, né crisi al buio: siamo di fronte al problema se rinascere, come ha fatto la Germania, e creare uno Stato forte e federale, oppure scomparire per sempre dalla storia dell’Europa. Chissà come sarebbe contento il Metternich.