“All’Italia serve una ENI dell’acqua”

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“All’Italia serve una ENI dell’acqua”

31 Gennaio 2013

A sole tre settimane dal voto per le politiche, in una delle più parossistiche campagne elettorali d’era repubblicana, il nodo della politica energetica dell’Italia non è mai entrato nell’agone politico nazionale.

Eppure in tempi in cui lo stato recessivo dell’economia italiana, e in generale europea, (pre)occupa il dibattito, una riflessione sul binomio imprescindibile economia/energia darebbe slancio alla discussione pubblica sul futuro della Nazione. Ne parliamo in un lunga intervista con Giancarlo Elia Valori, grand commis d’Etat all’italiana, con un passato alla guida di un importante monopolio post-statale come Autostrade spa. Cresciuto politicamente all’ombra di Amintore Fanfani, Valori appartiene a quella generazione di uomini e di donne che contribuirono a fare dell’Italia, nella seconda metà del secolo scorso, la quinta economia del mondo. Esperto di Cina, Valori è tra l’altro Honorable all’Acadèmie des Sciences de l’Institut de France, un titolo a vita che fu del cardinal Giulio Mazzarino.  Nel 2012 ha dato alle stampe il suo ultimo libro, “Geopolitica dell’acqua. La corsa all’oro del nuovo millennio”, un volume di grande interesse sulle sfide idriche che si stagliano all’orizzonte dell’Italia, dell’Europa e in generale della comunità internazionale.  

Parliamo delle politiche di sicurezza idrica dell’Italia. Nel suo libro lei denuncia il nanismo di società di gestione idrica come Acea le quali, secondo lei, non possono competere con i giganti dell’industria idrica francesi, tedeschi, inglesi e americani, da tempo internazionalizzati. Lei sostiene che sia tempo di creare un gigante dell’acqua italiano, una “Eni dell’acqua”. Ammesso che esista la volontà politica di percorrere questa via, come si costruisce un’impresa del genere?

In effetti, sia il numero che la dimensione delle aziende di servizio idrico è tale da far pensare ad una disarmonia strutturale del mercato delle acque. Senza fare nomi, il che non sarebbe corretto in questa sede, abbiamo a che fare o con multiutility in cui l’acqua è un settore tra gli altri, per la vendita, o con aziende specializzate nel settore idrico che, però, hanno un bacino di utenza e di rifornimento molto ristretto. Il che porta a: prezzi unitari tendenzialmente più elevati di quelli ottenibili in sistemi produttivi più evoluti, e a diseconomie di scala molto pronunciate. Anche le multiutility possono avere la tentazione, che spesso è accaduta, di accorpare il conto economico del settore “acqua” a quello “energia” o ad altri, e quindi non poter conoscere la struttura dei costi di produzione reali dell’acqua potabile. E’ vero che, in Italia, un metro cubo di acqua costa relativamente poco, in media 1,55 Euro di contro ai 2,92 Euro della Francia o ai 2,44 del Belgio. E’ anche vero che, visto che gli investimenti sulla rete idrica sono immediatamente necessari, dove andiamo a prendere i 60 miliardi che sarebbero utili per aggiornare ed espandere la rete idrica nazionale? Le soluzioni sono poche: o un consorzio tra le aziende di estrazione-distribuzione dell’acqua, ma qui si tratta di stabilire i carichi finanziari relativi alle varie aziende, che sono sempre, non dimentichiamolo, in concorrenza tra loro e in concorrenza per lo stesso bene, l’acqua, che non può essere dipinta di blu o essere aromatizzata alla lavanda o alternativamente al gelsomino, o una società di investimenti infrastrutturali esterna al sistema delle acque, o la “anarchia del mercato” marxiana in cui ogni piccola azienda di distribuzione idrica fa da sola, con pochissimi soldi e cercando, soprattutto, o di aumentare le tariffe oltre il consentito dagli equilibri di mercato, o caricandosi di debiti, quando è possibile, verso il sistema bancario. Oppure, ed è la soluzione al momento peggiore, il ricarico del rinnovo delle strutture di distribuzione idrica, che il mercato potenzialmente non può “tenere”, sullo Stato, il che sarebbe la crisi fiscale definitiva, con situazioni “argentine” o “colombiane”.

Come dovrebbe entrare in questo gioco il governo?

Lo Stato potrebbe aiutare, appunto, la composizione del mercato delle acque e favorire il suo autonomo e regolare accesso al credito. Oppure, dal basso, si può pensare alla costituzione di tante “cooperative dell’acqua” tra i cittadini, senza fini di lucro, con apporti di lavoro o di capitali, con legislazione quindi da “terzo settore”. Le due azioni di aggressione della crisi idrica prossima ventura non sono, come potrebbe sembrare ad una prima osservazione, contraddittorie. Anzi, sono complementari. Le perdite d’acqua strutturali, secondo il CoViRi, sono circa il 37% del materiale idrico immesso. Tra perdite strutturali inammissibili, aumento della domanda, sostegno inevitabile al sistema dei prezzi, dato che non si può far pagare il metro cubo d’acqua oltre un certo limite, che è dato dal reddito medio delle famiglie e dalla spesa per altri beni necessari, e nanismo delle imprese, come dicevamo all’inizio, stiamo entrando nella crisi globale delle risorse idriche con l’assetto istituzionale, finanziario, legislativo, commerciale, tecnologico e manageriale peggiore possibile.

Rimaniamo in Italia. Nel suo libro lei parla ampiamente di desalinizzazione. Anche qui l’Italia è indietro. Si tratta di un’industria dal grande potenziale che però pone ancora dei problemi di sostenibilità a causa degli alti costi di produzione in elettricità associati. Ciò è vero anche nei suoi processi più efficienti in termini di output, come quello a osmosi inversa. In altri paesi il nodo ‘alti costi’ è stato risolto combinando appunto il processo ad osmosi inversa con la produzione d’energia nucleare (si pensi alla Russia). In Italia con l’ultimo – ma anche poco meditato – “no” al nucleare, l’opzione desalinizzazione sostenuto da centrali nucleari sembra ormai una chimera. Il rifiuto collettivo al nucleare impedisce all’Italia di entrare in gioco sul fronte desalinizzatori, oppure ci sono altre soluzioni?

Non bisogna mai disperare della particolare Provvidenza conferita dalla Divinità alla Tecnologia. Le recenti tecniche al grafene elaborate al MIT, a basso costo medio, anche energetico, fanno immaginare uno sviluppo della desalinizzaziione, anche in un paese con oltre ottomila chilometri di coste e una scarsa attitudine al rinnovamento tecnologico e scientifico. In Italia, a tutt’oggi, operano circa 55 aziende di dissalazione, che attivano un mercato, del tutto scarso per le necessità, di 100/150 milioni di metri cubi di acqua, nel quale si possono attivare diverse tecnologie: quella per via termica a bassa temperatura, quella per osmosi inversa, già ben sperimentata nei paesi del Grande Medio Oriente e in Israele, e che sono indubbiamente, come Lei afferma, ad alto costo energetico, oppure le tecnologie di distillazione a bassa temperatura tipo MED che comunque hanno necessità di 70 Kwh per metro cubo, e quindi la soluzione, soprattutto nelle aree costiere, non può essere che la cogenerazione.

Insomma con il “no” al nucleare ci siamo dati proprio una zappa sui piedi…

Il nucleare sarebbe assolutamente necessario al nostro Paese. E’ vero che si tratta di gestire in piena autonomia economica e gestionale l’upgrade delle centrali esistenti e l’acquisto delle tecnologie più evolute sul mercato, senza farsi rifilare i vecchi dinosauri del nucleare tedesco e USA. Ma il problema rimane. E rimane in termini squisitamente strategici. Se noi ci leghiamo mani e piedi al sistema del gas e del petrolio panrusso o mediorientale, che hanno una geofinanza parallela – e infatti la Russia vuole entrare nell’OPEC – ci troviamo a eseguire una politica estera nel Mediterraneo che è del tutto estranea ai nostri interessi, sia politici che economici. Se, invece, abbiamo un sistema energetico nucleare non dico comparabile con quello del gas naturale importato, ma comunque significativo, allora si aprirebbero prospettive sia per la gestione dei prezzi, che ormai dall’Est sono gestiti con criteri di monopsonio politico, sia per una strategia economica e, oserei dire, militare italiana nel Mediterraneo, che verrebbe grandemente stimolata da questa nuova postura energetica nazionale. Si ricordi poi che la cogenerazione della dissalazione delle acque dall’energia nucleare, attività grandemente diffusa in tutti i paesi arabi e in Israele, è quella che costa mediamente di meno tra tutte le tecnologie attuali di estrazione di acqua potabile da quella marina.

Ciononostante, nessuno in Italia, tanto meno l’allora governo Berlusconi, ha voluto articolare un “sì” tanto necessario al nucleare. Ci siamo fatti intrappolare al primo referendum dal disastro di Chernobyl nel 1986, poi all’ultima consultazione nel 2011 dallo scoppio post-tsunami del reattore di Fukushima. La lobby del “no” è molto forte in Italia. Come la si disinnesca? 

Qui ci sono due vie: spiegare che la “via dell’atomo”, come la chiamava Felice Ippolito, è una buona soluzione. La prima, è quella di mettere in campo tutte le tecniche psicopolitiche anti-nimby (Not-In-My-Backyard, non nel mio cortile) l’altra, e qui il problema si fa ben più delicato, è quella di chiarire il nesso tra sistema dei petroli, e oggi del gas naturale, e macchina politica italiana. Era la questione primaria della cosiddetta Prima Repubblica, si è riproposta marxianamente (non in tragedia, ma come farsa) nella Seconda Repubblica oggi al suo tramonto, e oggi rischia di inquinare, con interessi paralleli mediorientali e di altre potenze, il sistema politico e la strategia globale italiana. Una buona comunicazione, seguita da efficaci comportamenti, può fare miracoli. In ogni caso, se non attiveremo un nucleare accettabile in Italia, anche la sola acqua prodotta da dissalazione potrebbe costare oltre il 30% in più di quella da cogenerazione nucleare, o da utilizzo del surplus di energia elettrica a basso costo indotto dal nuovo sistema delle centrali atomiche italiane. E’ vero che la Germania e la Francia stanno uscendo dal “loro” nucleare, ma nulla vieta di pensare che, dopo la ubriacatura verde, arriverà un nuovo sistema del nucleare centro-europeo, e noi saremo fuori, come al solito, dalle vecchie tecnologie come dalle nuove.

Parliamo del 2025, anno del “peak water”: circa 1,8 miliardi di persone vivranno in aree sottoposte a forte stress idrico, principalmente nelle “periferie” del mondo. A quanto suggerisce nel suo libro l’Occidente non se la caverà: anche le società delle economie avanzate verranno toccate dall’impatto di questa probabile crisi idrica sul mercato dei prodotti agricoli, a causa dell’agribusiness globale, ovvero per la dipendenza delle economie avanzate dall’approvvigionamento sui mercati globali di merci agricole prodotte nelle economie della “periferia”. Ammesso che tale scenario si manifesti davvero nelle forme e nei tempi che lei prevede, v’è ancora modo di invertire il processo? Se sì, come?

Non credo all’annus horribilis. Credo ad un periodo di crisi complesso intorno a quella data, forse poco dopo, nel quale si creerà una crisi idrica di vastissime proporzioni, ma questo è un dato, non una escatologia tecnocratica. Circa un terzo, secondo l’ONU, della popolazione mondiale vive in situazioni di stress idrico dal moderato all’elevato, con un 10% annuo di consumo oltre la quota delle fonti rinnovabili. Sulla base di questi criteri, il 40% della popolazione mondiale vive in situazioni di crisi idrica. Sempre sulla base di questo modello, nel 2025 1,8 miliardi di esseri umani vivranno in situazioni di stress idrico estremo. E’ vero? Si e no. E’ vero che, per quegli anni, raggiungeremo un punto di stress dell’acqua per cui la produzione e, soprattutto, il costo energetico della estrazione-raffinazione dell’acqua sarà tale da modulare i prezzi dei beni primari e da determinare la distribuzione dei capitali tra sistema idrico e investimenti sul sistema alimentare. E’ anche vero che l’applicazione dei modelli del peak-oil sul mercato globale delle acque non è del tutto efficace. Ce lo ha insegnato Leonardo da Vinci, le acque terrestri poi esalano inavvertitamente verso il cielo, per poi ritornare a noi come pioggia. Non accade lo stesso con le esalazioni di CO2, che arriva nell’atmosfera ma non ricade come pura benzina da auto sul suolo terrestre. Purtroppo.

Ci dica come si svilupperà il processo secondo lei…

Si andrà in primis verso un aumento del costo medio dell’acqua nei paesi produttori di cibo nel Terzo Mondo, che dovrebbero arrivare ad un picco del costo idrico del 35% in più per determinare l’effetto di ‘peak water’. A ciò si affiancherà un effetto sui prezzi di base dei beni alimentari che, a costi correnti, potremmo calcolare con un ricarico del 14% medio per tutti i beni. In secondo luogo, assisteremo ad un effetto di destabilizzazione ecologica della grandi aree di produzione agricola. Il capitale che investe in quelle aree non ha alcun interesse, a meno che non sia costretto, direi quasi fisicamente, da leggi internazionali efficaci o da normative locali ugualmente efficaci, a mettere grandi quantità di denaro nelle fonti idriche rinnovabili o a stabilizzare i criteri ecologici e sociali delle coltivazioni che servono per i mercati occidentali, che non vedono, non sentono, non parlano. In terzo luogo il costo della depletion, dello sfruttamento idrico della aree del Terzo Mondo crea un ricarico invisibile di un altro 12% sul prezzo finale, una depletion che sarà in futuro a carico degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Con costi rilevantissimi sul piano della finanza pubblica internazionale. A questo punto, assisteremo o a una economia “mordi e fuggi” nell’agribusiness, con aziende globali che sfruttano la corruzione e le circostanze ecologiche favorevoli pour l’espace d’un matin, a costi ecologici elevatissimi anche per i paesi dell’Occidente, oppure, ancora, potremmo immaginare un Trattato Politico delle Risorse, con forti minacce di rivalsa finanziarie che oggi non sono (ancora) possibili, per tutti quelli che operano nell’agribusiness verso i mercati “ricchi” destabilizzando il regime delle acque locali, la tutela della forza-lavoro, che non può certo essere trattata come un vecchio operaio della Volkswagen ma indubbiamente non può ritornare alla schiavitù che fece la fortuna della “Compagnia delle Indie” britannica. Insomma, le variabili sono molte, ma tutte sfavorevoli, se non ci muoviamo non con azioni formali, ma con operazioni finanziarie e fiscali globalmente punitive per quelli che gestiscono male le risorse dell’agribusiness, e questo non lo possiamo fare con le grida manzoniane dell’ONU o della FAO. Ci vorrà qualche “tag”, come dicono i ragazzini, sulle borse.

Lei suggerisce l’urgenza di nuovo “umanesimo” nello sfruttamento delle risorse naturali, di cui a suo avviso il capitalismo non ha mai saputo, né voluto, misurare i costi d’accesso. E’ davvero perseguibile? Se sì, quali autorità morali e/o politiche dovrebbero diffondere questa nuova “metafisica” energetica?

Le autorità sono importanti, ma non quanto il mood generale dell’opinione pubblica. La cultura ecologista, con le sue molteplici trasformazioni, spesso radicali, è passata da patrimonio di una élite, spesso utopistica e incapace di mettersi in relazione con lo sviluppo economico sia occidentale che del Terzo Mondo, fino ad arrivare, spesso mercificata, ma meglio questo che niente, al grande pubblico. Il capitalismo, quello manchesteriano di cui parlano Ricardo e Marx, nasce in un contesto in cui le risorse naturali non costano nulla e non generano, nel sistema produttivo, danni oggettivi alle comunità che vivono nelle vicinanze delle fabbriche. Ma si tratta di implementare, con il meccanismo di Adam Smith della divisione del lavoro, della sua parcellizzazione, gli stessi processi e soprattutto gli stessi prodotti della fabbriche pre-capitalistiche o del sistema, che il modello di Manchester unifica, delle attività familiari di produzione che vengono raccolte da mediatori-imprenditori. Anzi, l’assenza di costi ecologici fu una delle basi della razionalità economica dei prezzi di produzione riguardo all’incasermamento delle masse locali, impoverite dalle riforme agrarie, negli opifici così ben descritti da Dickens. Il problema è che oggi non abbiamo più una produzione industriale che sostituisca i consumi arcaici e tradizionali, ma anzi da molti anni li innova e li trasforma, con costi energetici e idrici straordinari che la scienza economica, salvo rare eccezioni, non mette in conto. Ecco, un nuovo umanesimo dovrebbe impostare un calcolo economico accettabile dei costi energetici (che Ricardo, per dirne uno, non menziona) degli effetti ambientali della produzione, delle determinanti culturali e simboliche dell’economia. Ecco il “nuovo umanesimo”: noi stiamo a combattere le grandi emergenze del mondo moderno con le logiche e i paradigmi di quando, nella Rivoluzione Americana, che è contemporanea alla prima edizione della “Ricchezza delle Nazioni” di Smith, nel 1776, si sparava con lo schioppo a avancarica. Noi dobbiamo creare gli strumenti per la retrocarica, e magari per la ripetizione dei colpi, sul piano concettuale. La misura dei costi-base potrebbe essere gestita da strutture indipendenti, ma non come le agenzie di rating, che creano un criterio di valutazione locale e un’analisi dei prezzi-base finali per l’agribusiness, e mi auguro che, invece della semplice e utilissima predicazione, alcune associazioni internazionali si facciano carico di questo lavoro e, addirittura, si “mettano in proprio” con cooperative di produzione e consumo nei Paesi Terzi. Chi controlla? In linea di massima, la FAO, che ha brillantissimi analisti e, per quanto riguarda la costruzione del nuovo Grande Umanesimo, si può lasciar fare alla Chiesa di Roma, alle grandi associazioni internazionali, ai migliori mass-media. Il resto verrà da solo.

Infine vorrei parlare di un quadrante della “geopolitica dell’acqua” che interessa l’Italia da vicino: quello mediorientale. Ci sono almeno due intersezioni di notevole interesse tra le varie che le analizza nel suo libro: quella turco-siriano-irachena e quella saudita. Sulla prima, quanto peso ha l’aspetto idrico nelle relazioni tra Ankara e Damasco, oggi in conflitto nella crisi siriana? Sulla seconda intersezione, quella saudita, lei sostiene che Riyad cercherà di investire in terre coltivabili sui mercati esteri per tenere in piedi in equilibrio i rapporti esistenti tra acqua, energia e risorse agricole rispetto al trend demografico interno saudita. Verso quali ‘lidi’ guarderà il governo saudita per tali investimenti e che impatto avrà questa politica sugli equilibri politico-diplomatici tra Occidente giudaico-cristiano e Medioriente islamico?

C’è la diga sul fiume Oronte, di cui ho parlato nel mio libro. Ci sono diversi tecnici operanti, fino ai disastri politici recenti, in Siria, e che si occupano anche di tutela ambientale. Ankara non vuole che il disequilibrio ecologico siriano si rifletta sulla sua Anatolia, terra di sviluppo futuro del regime dell’AKP, bacino elettorale di Erdogan e della sua nuova middle class extraurbana. Ankara quindi farà di tutto per evitare che, per parlare in termini strettamente economici, le ragioni di scambio del granaio siriano, che opera fin dai tempi dell’impero romano, si muovano verso Teheran, che pure ha bisogno di cibo e risorse idriche. La sete di acqua dell’Iran è straordinaria, come peraltro testimoniano le fonti governative di Teheran, e ormai la ricerca di nuove fonti e l’uso smodato di quelle già conosciute ci porta a calcolare una depletion induttiva delle risorse idriche iraniane, a tutt’oggi, di almeno il 32%. E si tratta di sistemi non rinnovabili. Infatti, uno dei grandi drivers geopolitici di Teheran verso l’Afghanistan, di cui mira a prendersene un pezzo per lasciarne, con l’intercapedine mineraria e infrastrutturale cinese, l’altro al Pakistan, è proprio la ricerca dell’acqua, di cui l’Afghanistan è ricchissimo.

Quanto al regime saudita?

Per quel che concerne l’Arabia Saudita, Riyadh ha proibito l’acquisto, per il 2016, di grano prodotto nel suo territorio. I sauditi oggi importano 2,5 milioni di tonnellate di grano, un “deal” che sarà concluso nel 2013, ma hanno concluso un accordo di leasing del terreno con l’Etiopia per 10.000 ettari di terreno, mentre Riyadh valuta, come la Cina, il pagamento in termini di opere 11 infrastrutturali del costo del leasing granario. La Cina sta facendo lo stesso, è partita dal Corno d’Africa ma sta operando, con investimenti in agribusiness, nell’Africa “nera”, nella Repubblica Democratica del Congo, in altri paesi dell’Africa subsahariana, e tra poco in Libia e in Egitto. Mentre gli occidentali si accollano il costo imprevedibile e pericoloso del regime change, Pechino, senza chiedere alcuna prova del sangue sulla democraticità alle élites dell’Africa subsahariana, espande il suo sistema agricolo e idrico, esportando manodopera a bassissimo costo, gestendo l’economia servile tradizionale dell’Africa che i comunisti cinesi chiamerebbero “precapitalistica”, cosa che cade anche ai confini tra Afghanistan e Cina oggi, e sostenendo, con tutte le tecniche finanziarie possibili, le vecchie classi dirigenti politiche e affaristiche. Cosa potrebbe fare l’Occidente? Ben poco. Collaborare, nei limiti dei diversi interessi geopolitici, con Pechino in Africa, favorire una razionalizzazione delle azioni di tante majors dell’agribusiness e dell’acqua che sfruttano con una logica del tipo “mordi e fuggi” le popolazioni locali africane, rendendole facili prede della concorrenza cinese addirittura al ribasso, creare un settore, dentro il WTO, che si occupi dei consumi termini idrici della produzione di cibo. E’ poco, ma potrebbe già funzionare.