All’Italia serve una riforma costituzionale organica e non tirata via

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All’Italia serve una riforma costituzionale organica e non tirata via

29 Marzo 2012

Per valutare le proposte di riforma costituzionale e di modifica della legge elettorale emerse dal cosiddetti incontri ABC (Alfano, Bersani, Casini) è necessario operare una duplice considerazione. La prima relativa al merito delle proposte e al loro valore, per così dire, assoluto; la seconda che prenda in considerazione il quadro politico complessivo nel quale tali proposte sono emerse.

Le intenzioni di riforma costituzionale non sono disprezzabili. Il rafforzamento dei poteri del premier, il superamento del bicameralismo simmetrico, la riduzione del numero dei parlamentari sono obiettivi condivisibili. Ma, al momento, siamo di fronte ad enunciazioni generali e non a definizioni articolate e quindi il giudizio su di esse va dato con un forte beneficio d’inventario.

Anche a questo stadio si può dire, però, che le misure non costituiscono una riscrittura organica della forma di governo in senso monista diretto e maggioritario, ma sono solo alcuni correttivi parziali. Tuttavia se tutte le modifiche andassero in porto avremmo fatto dei passi avanti verso un sistema politico più razionale, meno esposto alle derive trasformiste. In particolare sarà il caso di spendere qualche parola aggiuntiva sulla riduzione del numero dei parlamentari.

Un provvedimento auspicabile non solo per ragioni moralistiche, ma anche per una considerazione di semplice aritmetica della rappresentanza. Intendiamoci, il numero di parlamentari italiani è pletorico (esso diventa eccessivo se si pensa alla legione di consiglieri regionali che ai parlamentari sono, sotto molti rispetti, equiparati). Una ragionevole riduzione avrebbe un effetto salutare verso un’opinione pubblica percorsa da ventate antipolitiche senza costituire un cedimento demagogico.

Ma la riduzione è auspicabile anche, e direi soprattutto, per un’altra ragione. Un parlamento con meno eletti deve avere necessariamente una soglia di accesso più alta, fatto che può contribuire a ridurre il numero dei partiti ovvero delle sigle e formazioni politiche parassitarie che al momento affollano le aule parlamentari. Meno convincente appare la proposta di modifica della legge elettorale.

Certo, viene mantenuta l’indicazione del candidato a premier, e questo è un elemento positivo che si collega al rafforzamento dei poteri del premier. Nel complesso, però, il meccanismo appare barocco e non orientato a un sano malthusianesimo rappresentativo. La soglia di sbarramento prevista non è troppo alta (peraltro si parla del 4 o del 5 % come se le due percentuali fossero equivalenti, il che non è); lo stesso vale un modesto premio a chi risulta primo.

Non è chiara neanche la modalità di scrutinio e quanto sarà proporzionale il meccanismo di ripartizione dei seggi. Infine, il fatto che si rinunci all’obbligo di coalizione apre al strada a governi non legittimati dal voto popolare. In sostanza sulle modifiche della legge elettorale le perplessità si accrescono anche perché in queste faccende i dettagli sono decisivi per capire in che direzione ci si muove.

Insomma, in termini assiologici assoluti l’insieme delle misure di riforma non è certo esaltante. Tuttavia se si tiene conto della situazione politica generale tale giudizio negativo va attenuato. All’indomani delle elezioni del 2008 un accordo tra i due partiti maggiori per una riforma delle istituzioni tesa a consolidare la democrazia dell’alternanza, sembrava possibile.

Nell’arco di quattro anni questa prospettiva si è allontanata man mano e hanno preso piede ipotesi di restaurazione centrista. Per capirlo basta por mente al fatto che tra i protagonisti della fase politica attuale abbiamo l’Udc, cioè un partito che non ha rappresentanza in Senato e che una legge elettorale più selettiva avrebbe già da tempo eliminato dalla vita pubblica.

Inoltre le formazioni politiche estremiste e non interessate a una semplificazione del quadro politico ringhiano rissosamente contro qualunque aggiustamento istituzionale, mentre i partiti maggiori (soprattutto il Pd a dire il vero) non versano in condizioni di salute ottimali. Alla luce di simili considerazioni anche le modifiche ventilate sono auspicabili.

Semmai, occorre lavorare dall’interno per far sì che ci siano dei "paletti" sufficientemente alti per evitare un drastico colpo di spugna sull’esperienza di democrazia dell’alternanza che si è sperimentata nel recente passato. Si tratta, certo, di una prospettiva non esaltante; tuttavia, alle volte (soprattutto in politica) è importante anche riuscire a salvare il salvabile.