All’Onu l’Italia ha fatto la sua parte su Libia e riconoscimento palestinese
24 Settembre 2011
L’Assemblea Generale dell’Onu, si sa, è più un grande sipario ‘istituzionalista’ per riaffermare posizioni diplomatiche già declamate e conosciute che una vera opportunità per dare il la a cambiamenti cogenti nelle relazioni tra gli Stati. Questo è certamente vero per il grande pubblico, per quelli che guardano la grande messa in scena, la sequenza di piccoli e grandi capi di Stato o di governo che si susseguono dal pulpito un po’ datato dell’Assemblea Generale.
Come noto l’Assemblea plenaria di quest’anno è stata dominata, sul piano strettamente mediatico (sul piano diplomatico la novità si chiama ‘nuova’ Libia), dal tentativo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) di Mahmoud Abbas di dotare la Palestina di un riconoscimento della propria Statualità con l’appoggio dell’Onu e della larga maggioranza filo-palestinese in Assemblea generale. L’iniziativa di Abbas è stata senza dubbio un successo propagandistico, visto che i media e tante cancellerie occidentali se ne occupano ormai da mesi, ma dai risultati diplomatici piuttosto miseri. D’altronde, se per risolvere il conflitto israelo-palestinese fosse bastato l’Onu, come ha dichiarato il presidente Obama nel suo discorso in Assemblea, “ci saremmo arrivati già da tempo”. Ieri Abbas ha presentato al segretario generale dell’Onu, Ban-ki Moon, la richiesta di pieno riconoscimento di come Stato membro dell’Onu. Una richiesta che il Consiglio di Sicurezza rifiuterà con buona probabilità a maggioranza, senza bisogno di veti francesi o statunitensi.
Nonostante le sortite ‘cerchiobottiste’ di Nicolas Sarkozy il quale dal palco dell’Assemblea ha offerto alla Palestina lo status di “membro osservatore” dell’ONU, Stati Uniti e Europa (anche il ministro degli esteri francese Alain Juppé si è poi allineato) hanno tenuto colpo, mostrandosi compatti nel dire all’Anp che per essere Stato un requisito in particolare è necessario: c’è bisogno innanzitutto di confini certi e non di linee armistiziali come quelle attuali. Condizione questa di cui il territorio della Cisgiordania è sprovvista e che può essere raggiunta solo con un’intesa con Gerusalemme. Un’obiettivo quello della Statulità palestinese raggiungibile solo negozialmente, con Israele.
Ieri i diretti interessati hanno parlato in Assemblea. Primo in ordine di tempo, il monologo comiziante di Mahmoud Abbas che ha reiterato l’accusa agli insediamenti israeliani e ha ‘cantato’ l’inno globale di ‘Palestina libera’, deludendo quanti speravano in un cambio di tono. Di tutt’altra materia, l’intervento del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, che con un discorso limpido, dall’afflato quasi religioso e compassionevole, si detto disponibile all’incontro con Abbas, già all’Onu (mentre il primo ministro israeliano parlava, le telecamere della regia video onusiana si sono spostate sugli scranni della rappresentanza palestinese ove mancava proprio Abbas).
Il problema di Netanyahu è maggiore: per quanto la sua oratoria sia poderosa (l’uomo non manca di narrativa), talvolta anche un po’ troppo avversariale, il suo governo ha dato prova di essere incapace di iniziativa rispetto ai grandi cambiamenti in corso nella regione. Uno su tutti: i rapporti con la Turchia. Uno spregiudicato Erdogan si sta accreditando come leader regionale presso l’opinione pubblica araba bacchettando severamente Israele. Piaccia o no, questo è il dato. Netanyahu ha mostrato di non saper cogliere le occasioni al volo. Ha accusato le mosse turche in difesa, senza riprendere coraggio e spunto.
Quando la Turchia ha impedito la partenza della seconda flottiglia verso Gaza (diamo ad Ankara il beneficio del dubbio quanto alla buona fede del gesto), Israele avrebbe dovuto cogliere la palla al balzo, riannodare, ricucire. Certo che i rapporti non saranno più come prima. Certo che la ‘contro-alleanza’ di Israele con la Grecia può essere un buon monito affinché Ankara non superi certe soglie di aggressività verbale. Lo status quo ante però non è più riproducibile. Vale per Israele, e per tutti i paesi euro-mediterranei. Non c’è più Mubarak. Non c’è più Ben Ali. Tanti dittatori sono sul punto del collasso, vedi Gheddafi o Assad. Tanto è cambiato e molto cambierà nella regione, perché Israele rimanga immobile e rigida sulle sue posizioni. La tutela della propria sicurezza nazionale è una cosa, l’immobilismo diplomatico è un’altra. Vale per Israele, e per tutti i paesi euro-mediterranei, Italia compresa.
Quanto all’Italia appunto, c’è stato l’affaire Obama-Libia. Si sarà notato il piccolo-grande scandalo tirato su dal Corriere della Sera che ha cercato di mettere benzina sul fuoco facendo notare che l’Italia non era stata menzionata nel gruppo dei paesi degni di ringraziamenti per gli sforzi libici. Il nostro giornale se n’è gia occupato. Ieri il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha parlato di “omissione tecnica”. Verrebbe da rispondere a noi poveri mortali: “Technical omission? Give me a break!”. Non ci crede nessuno. Immaginiamo neanche la Clinton. E’ stato chiaramente uno sgarbo, una dimenticanza voluta da parte di un’amministrazione che non ama Berlusconi e che voleva fargli appunto uno sgambettino ‘rimediabile’ a poco, con la fesseria dell”omissione tecnica’. Poco importa: che ci abbiano menzionato o meno, il ruolo dell’Italia è evidente a tutti. Senza le basi italiane, avremmo tanto voluto vederli i jet francesi a fare gli attacchi sulla Libia…dalla Provenza!
Certo questo sgarbetto mal cela qualcos’altro. Di un po’ più profondo. Forse proprio a causa di quel ‘disastroso incipio’ – la battuta ‘russa’ sull’abbronzatura del presidente americano proprio a inizio mandato e pronunciata in Russia accanto a Medvedev – i rapporti tra Berlusconi e Obama non sono mai decollati. Certo c’è stata l’Aquila, ma tra i due non c’è intesa. Quanto all’argomento secondo cui la Casa Bianca non avrebbe preso bene la titubanza italiana all’inizio della campagna di Libia (più che giustificata visto che abbiamo perso più degli altri), non regge un granché. Gli Stati Uniti sono sensibili al concetto di interesse nazionale, e probabilmente sono stati i più empatici tra i nostri alleati in Nato (non si dica lo stesso per Parigi e Londra).
Infin dei conti, il trattato d’amicizia italo-libico rimarrà in piedi e con buona probabilità il prossimo Ottobre sarà riformulato a Roma tra Jibril e il governo italiano. Questa è l’unica buona notizia dal palazzo di vetro. Una buona notizia per gli interessi nazionali italiani. Il resto è parole.