“Almagate”, quando l’Interpol di Astana chiese l’espulsione
20 Luglio 2013
Secondo l’avvocato di Alma Shalabayeva il destino della moglie di Ablyazov e di sua figlia Aula era segnato. Le autorità kazake avevano già chiesto a quelle italiane di espellere la donna, prima del blitz a Casal Palocco. Nel mainstream giornalistico di questi giorni l’espulsione è diventata una "deportazione", le autorità kazake sono state associate unicamente ai diplomatici in attesa sull’aereo noleggiato, Ablyazov è stato definito un "dissidente" e il principale oppositore del "dittatore" Nazarbayev, a sua volta "amico di Berlusconi".
Ma ora che la sfiducia ad Alfano è stata bocciata si può decostruire pazientemente questa versione cara a certi mezzobusti televisivi. Sappiamo già che Ablyazov è cresciuto e pasciuto alla corte di Nazarbayev finché, queste le accuse kazaze, non ha saccheggiato la banca nazionale dandosi alla macchia. Sappiamo che la deportazione in realtà è stata una espulsione effettuata a norma di legge, come emerge dalla relazione del nostro capo della Polizia. Come pure è nota la passione di premier destri e sinistri (da Blair a Prodi) per il Kazakistan ricco di petrolio e gas.
Quello che invece va chiarito è il ruolo dei "diplomatici" kazaki. Da dove sono arrivate le pressioni sulle autorità italiane che hanno spinto alla mega operazione Digos? Ebbene, quel 31 maggio, in mattinata, non sono i "diplomatici" kazaki a invitare la polizia italiana ad effettuare il blitz nella villa ma l’ufficio Interpol di Astana. L’Interpol, vale la pena ricordarlo, non è la spectre ma una organizzazione intergovernativa riconosciuta dalle Nazioni Unite (la stessa Onu che oggi bacchetta l’Italia per la deportazione). La richiesta è rimpatriare la donna se ha documenti falsi.
In aula, nei giorni scorsi, abbiamo sentito i 5 Stelle dire che il passaporto della Repubblica centrafricana fornito dalla donna agli agenti non era falso. In realtà la bella Alma ne aveva due, uno a nome di Alma Ayan (quello centrafricano) e l’altro regolare. Il secondo però non lo ha mostrato agli agenti, scegliendo quindi consapevolmente di non farsi riconoscere ed evitando di chiedere asilo politico in Italia (come invece ha fatto subito il cognato). Dunque non sono i "diplomatici" kazaki ma gli Zenigata dell’Interpol a chiedere il rimpatrio.
Se visitiamo il sito dell’Interpol, nella pagina della sede kazaka dell’organismo, c’è ancora una notizia che risale al novembre scorso in cui si descrive Ablyazov come l’autore di una "epica truffa" al sistema bancario nazionale. Nello statuto dell’Interpol, i ricercati come Ablyazov non possono essere considerati dei richiedenti asilo. La procura italiana quindi ha seguito la legge.
Il Fatto Quotidiano ha raccontanto che Scotland Yard aveva passato ai colleghi italiani l’informazione che l’oligarca era un rifugiato in Gran Bretagna. Peccato che l’uomo sia sparito dall’isola e non si sa ancora che fine ha fatto. L’Interpol ha un segretariato generale, a Lione, che aveva chiesto conferma a Londra sullo status di Ablyazov, ma gli inglesi non hanno risposto, come pure hanno taciuto alle richieste del Dipartimento di Pubblica Sicurezza italiano.
In compenso la stampa inglese ha pompato l’intervista strappalacrime della Shalabayeva, contribuendo a far passare l’immagine dell’Italia Paese spietato con i rifugiati. In conclusione, le autorità italiane avrebbero potuto certamente verificare meglio prima di agire e soprattutto informare i vertici del Governo. Ma i "diplomatici" kazaki che hanno dato il via alla operazione erano forze della cooperazione di polizia internazionale. Ablyazov più che un dissidente è un oligarca in fuga. Sua moglie non ha voluto farsi riconoscere durante i concitati momenti del blitz. E la Gran Bretagna ha i suoi interessi in tutta questa vicenda, non ci vuole James Bond per capire quali.