Almeno sugli stipendi dei manager si eviti la retorica populista
27 Gennaio 2010
Al momento attuale, siamo di fronte soltanto (o prevalentemente) ad effetti speciali in stile “Avatar” – da gustare con tanto di occhialini 3D – prestati a una storia che di senso ne ha poco.
L’emendamento del governo al disegno di legge comunitaria che renderà obbligatoriamente pubblici gli stipendi di amministratori e manager delle società presenti in borsa impone per via legislativa una regola già prevista dal codice di autodisciplina delle imprese quotate. Oltre a questo, in nome di una “trasparenza” che però s’intromette nei rapporti tra azionisti e dirigenti, si prescrive di rendere di pubblico dominio i criteri alla base delle remunerazioni, insieme a informazioni sui bonus e sulle stock option.
Sembra però solo il primo passo, dato che in America come in Europa si va costruendo da tempo una lettura populista della crisi, condivisa a destra come a sinistra. In tale versione dei fatti le origini del disastro non sarebbero nella politica monetaria (i bassi tassi d’interesse) o nella regolamentazione bancaria (che ha imposto la concessione di mutui a creditori insolventi), ma nell’avidità degli amministratori. Se nessuno nega che vi siano stati comportamenti discutibili da parte dei manager, questo però non basta a spiegare il crollo. Amministratori cinici c’erano, in America e altrove, anche vent’anni fa: eppure la crisi era lungi dal manifestarsi. Oggi però si cerca un capro espiatorio e i “ricchi”, ora come sempre, funzionano bene.
Mettere sotto accusa i manager è però sbagliato e può solo produrre disastri. Chi semina vento e risentimento di classe, poi raccoglie ben poco di buono. Una società libera si preserva se l’invidia non pervade la società e se le posizioni eminenti sono accettate: che si tratti dello stipendio di un calciatore, dell’incasso ottenuto da un fortunato acquirente di un “gratta e vinci” o del compenso dell’amministratore delegato di Datalogic. Gli italiani, che a più riprese hanno eletto il loro concittadino più ricco, non sono un popolo di biliosi. E allora non si capisce perché mai proprio un governo berlusconiano dovrebbe promuovere una qualche forma di astio o sospetto pregiudiziale verso chi ha successo.
Va anche aggiunto che in una società di mercato, la remunerazione è un prezzo e attesta il giudizio che gli operatori attribuiscono a quel determinato servizio. Per questo non c’è nulla di assurdo nel fatto che un’impresa dia tre milioni di euro a un alto dirigente o una squadra di calcio a un allenatore se reputano che quei soggetti siano in grado di farne fruttare ben di più.
Non tutto va bene, certo, e vi sono cambiamenti da introdurre. In particolare, questo “mercato” è viziato da imprese pubbliche che seguono logiche perverse: i casi degli amministratori di Alitalia o Trenitalia, per citare soltanto gli episodi più noti, attestano come entro un’economia mista sia possibile incassare montagne di denaro anche quando si sta distruggendo un’azienda. In questa circostanza non si tratta però di mettere sotto controllo i redditi dei super-manager, ma semmai di privatizzare il parastato.
I super-bonus delle imprese private sono una questione che riguarda gli azionisti, mentre nel caso delle aziende statali si tratta di soldi sottratti (con il prelievo fiscale) a quanti producono ricchezza. Non è proprio la stessa cosa.
Oltre a ciò, probabilmente sarebbe opportuno porre mano al diritto societario, garantendo maggior potere agli azionisti e – cosa egualmente importante – permettendo una maggiore contendibilità delle imprese, al fine di spezzare ogni eventuale “cattura” da parte dell’apparato e in particolare del suo vertice. Ma impedire la dinamica dei prezzi in questo come in altri settori significa minare il buon funzionamento del mercato.
Tanto più che quanti predicano contro lo scandalo dei redditi dei manager (indipendentemente dalle loro capacità, dai risultati che ottengono, e soprattutto dalla natura volontaria di quei contratti) di tutta evidenza sono pronti, nel giro di poco, a mettere in discussione gli altissimi profitti di taluni proprietari. È infatti difficile capire secondo quale logica un manager molto bravo non possa avere un reddito milionario quando un ereditiere – che ha avuto la sola fortuna di nascere da quei genitori – ha entrate dieci volte superiore, o anche più. A quel punto è la stessa società liberale che finisce per essere messa in discussione.
Nell’emendamento del governo, per ora, c’è soprattutto retorica: ma è cattiva retorica, e potrebbe produrre frutti sempre più velenosi.