Altro che golpe, Erdogan resta e passa alle “purghe”
17 Luglio 2016
Dopo il fallito golpe militare contro il presidente Erdogan, com’era prevedibile, in Turchia scattano le “purghe”: 9 giudici della Corte Suprema sono stati arrestati ieri, insieme ad altri 10 membri del Consiglio di Stato. Il Consiglio superiore della magistratura turca ha licenziato oltre 2700 giudici (e 5 dei suoi 22 membri), con l’accusa di essere collegati al predicatore Gulen, indicato fin dalle prime ore del “coup” come il burattinaio del colpo di stato, anche se lui, dall’esilio negli Usa, continua a smentire un suo coinvolgimento in quanto è accaduto.
In Turchia Gulen ormai viene ritenuto il mandante di qualsiasi cosa accada e anche le accuse che gli vengono rivolte in queste ore potrebbero rispondere a una strategia, alienarlo davanti agli occhi della opinione pubblica. Tremano le relazioni diplomatiche tra Washington e Ankara, con il premier turco che ha fatto sapere “chi appoggia Gulen è in guerra con noi”, mentre è stato arrestato anche il comandante turco della base aerea di Incirlik, dove si trovano più di mille uomini del personale militare americano che combatte lo Stato islamico in Siria. Le operazioni nella base per adesso sono sospese.
Segnali preoccupanti di come potrebbe arroventarsi la crisi turca, dopo che stanotte le cancellerie internazionali, Casa Bianca, Berlino e la Ue, la NATO e Mosca, hanno tardato a prendere un posizione chiara contro il colpo di stato, una reticenza che gli analisti interpretano come un segnale di sfiducia nei confronti di Erdogan. Va ricordato che nelle prime ore del golpe, quando il presidente è o sarebbe fuggito in aereo nei cieli tra Europa e Medio Oriente, Berlino ha o avrebbe negato l’atterraggio del jet presidenziale, e quindi di dare asilo politico a Erdogan. Angela Merkel ha poi aggiunto che i golpisti andranno trattati secondo le regole dello stato di diritto.
La vendetta di Erdogan fino adesso ha portato in carcere 3.000 soldati, compresi 34 generali. Le “purghe” con ogni probabilità proseguiranno nei ranghi intermedi dell’esercito, i “colonnelli kemalisti”, come sono stati definiti, alla base della rivolta. Nelle prime ore di sabato, quando Erdogan ha parlato da Istanbul, il presidente ha sfidato i golpisti parlando di “atto di tradimento” e annunciando che pagheranno “un prezzo pesante”. Dopo aver giocato un ruolo importante nella storia della Turchia moderna, e nella politica nazionale, ora quelle forze militari imbevute degli ideali laici cari ad Ataturk, padre della nazione, rischiano di essere asfaltate a vantaggio di una nuova classe dirigente in divisa più consona alla visione di stato islamico in salsa liberale, il modernismo reazionario propugnato da Erdogan da quando è salito al potere nel 2003.
In realtà i militari turchi ribelli stavano perdendo da tempo la loro influenza all’interno dello Stato (va sottolineato che l’esercito turco è il secondo per numero di uomini all’interno della Alleanza Atlantica), in particolare dopo le minacce rivolte ad Erdogan nel 2007 su Internet (il caso “e-coup”, un tentato colpo di stato informatico) e poi con i processi seguiti alle indagini della polizia turca che denunciarono un piano degli stessi militari per rovesciare il governo. Alle forze che ieri hanno organizzato il tentato golpe – si parla dei vertici della aviazione, ma anche della Gendarmeria (il corrispettivo dei nostri Carabinieri) – non è mai andato già il conservatorismo di Erdogan e neppure le recenti operazioni militari ordinate dal presidente in Siria. Chi ha provato a rovesciare Erdogan credeva di essere l’unico a poter mettere un freno allo strapotere del presidente.
Intanto arrivano notizie di migliaia di persone in piazza a festeggiare il ritorno della “democrazia”, mentre altri boatos dicono che i “colonnelli” autori del putsch avrebbero riparato in Grecia (la Turchia sta chiedendo ad Atene di consegnare eventuali fuggitivi e la Grecia fa sapere che accetterà le estradizioni). Sul ponte del Bosforo a Istanbul, un soldato golpista che si era arresto ai lealisti sarebbe stato ucciso dalla folla inferocita e fedele a Erdogan e subito dopo decapitato.
La Turchia che si è risvegliata dopo la notte della rivolta è più debole, nonostante il ritorno ad orologeria di Erdogan, nonostante le stesse forze di opposizione si siano schierate per la tenuta dell’ordine democratico: al potere in Turchia si arriva attraverso libere elezioni, sembrerebbe il messaggio passato nelle ultime ore. Ora, in attesa di capire come e con quali metodi verrà portato avanti il “repulisti” di Erdogan nei ranghi dell’esercito, della magistratura e delle burocrazie che ancora gli sono ostili, viene da commentare che l’errore capitale commesso dai golpisti l’altra notte è stato proprio quello di non bloccare subito il presidente, dandogli la possibilità di volare via e poi di tornare quando si è capito che la struttura del potere nel Paese non era stata intaccata irrimediabilmente.
Non era andata così al Cairo, in Egitto, quando i generali guidati dall’attuale presidente Al Sisi rimossero con la forza il leader dei Fratelli Musulmani, Morsi, dal potere. Un golpe non è una passeggiata e se si vuole realizzarlo davvero bisogna isolare e rendere inoffensivi protagonisti e sostenitori della parte politica avversa, se no, come sta accadendo adesso in Turchia, violenza e vendette si ritorcono contro chi l’ha organizzato. Resta la sensazione di una Turchia instabile, un paese a pezzi, con Erdogan che rischia di dover fare i conti con una guerra civile dentro casa. Un Paese che a questo punto certamente non potrà chiedere o pretendere di entrare in Europa.
Uno stato membro della NATO spaccato da faide intestine, purghe indiscriminate, nel contesto di un processo autoritario di islamizzazione della società su cui a questo punto Erdogan potrebbe decidere di spingere fino in fondo l’acceleratore. Tutto questo sullo sfondo delle accuse rivolte al presidente nei mesi scorsi, sull’atteggiamento tiepido con cui la Turchia ha deciso di contrastare l’avanzata dello Stato islamico e le eventuali complicità sempre smentite da Ankara con l’islamismo radicale.