Altro che ideologia. I soldati della Wehrmacht erano solo dei criminali

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Altro che ideologia. I soldati della Wehrmacht erano solo dei criminali

29 Luglio 2012

Tra i documenti d’archivio risalenti alla Seconda Guerra Mondiale quelli su cui hanno potuto lavorare lo storico Sönke Neitzel e lo psicologo Harald Welzer sono certo tra i più scioccanti. Si tratta dei colloqui registrati di nascosto da inglesi ed americani nei campi di prigionia allestiti per accogliere soldati ed ufficiali della Wehrmacht.

Il risultati della ricerca, usciti in Germania un anno fa e ora editi in Italia (Soldaten. Combattere, uccidere, morire, Garzanti, 2012, p. 464, € 24,50), ad una lettura superficiale sembrerebbero confermare la linea interpretativa secondo la quale la Wehrmacht, da esercito prussiano fortemente elitario qual è stato fino al 1935, si sia lasciato trasformare rapidamente da Hitler in strumento al servizio incondizionato della causa nazista. Indiscusso sostenitore di questa tesi è lo storico e giornalista televisivo Guido Kopp (si veda il suo ultimo libro "La macchina da guerra del Terzo Reich", Corbaccio 2010). In sostanza, senza tenere conto della grande “varietà umana” che dovette ingrossare le fila di un esercito che arrivò a contare fino a 18 milioni di uomini, Knopp pone da sempre l’intera Wehrmacht, senza distinzioni significative, sullo stesso piano delle Schutzstaffeln, la guardia personale di Hitler.

I prigionieri di guerra tedeschi, dai cui colloqui registrati, che dovevano servire principalmente per acquisire informazioni segrete, vennero trascritte qualcosa come 150.000 pagine, furono raccolti dagli inglesi a Trent Park, a nord di Londra, e dagli americani a Fort Hunt, in Virginia. Provenendo quegli uomini da varie esperienze militari e un po’ da tutti i fronti di guerra, lo spettro d’indagine si è rivelato necessariamente molto ampio. E tuttavia il tratto che accomuna i colloqui tra i prigionieri è il desiderio di raccontarsi gli episodi più violenti ed i crimini più efferati di cui la guerra li ha resi protagonisti. Insomma, si è davvero di fronte a documenti dell’orrore. Ed alla progressiva assuefazione ad esso. Fino a provarne piacere.

“Il primo giorno”, si legge in un protocollo del 30 aprile 1940, “mi sembrava terribile. Poi mi sono detto: un ordine è un ordine. Il secondo e il terzo giorno già potevo dirmi: non me ne frega niente. Il quarto giorno, poi, c’ho provato gusto”. Nel resoconto di un pilota della Luftwaffe, “cacciare con le mitragliatrici i soldati in fuga per i campi, fino a colpirli con un paio di pallottole” viene descritto come un “godimento da provare prima di colazione”. Alla data del 17 luglio 1940 un altro aviere, un tenente, racconta: “Gettare bombe è diventata per me una necessità. Si tratta di una sensazione squisita, è come sparare a qualcuno”.

Di resoconti di questo tipo si potrebbe stilare una lunga lista (e il libro in buona parte è questo), tuttavia il nucleo più interessante del lavoro di Neitzel e Welzer è un altro. E consiste nel tentativo di dare una risposta aggiornata ad una questione ancora aperta: fino a che punto la Wehrmacht ha combattuto la guerra a servizio della causa nazionalsocialista? E qui non mancano le sorprese. I resoconti infatti, se da un lato confermano una diffusa conoscenza tra i prigionieri del programma d’annientamento degli ebrei ed una loro fattiva collaborazione a esecuzioni di massa, dall’altro rivelano quanto spesso la loro partecipazione non avesse una radice antisemita. Ciò che emerge, secondo l’analisi di Neitzel e Welzer, è soprattutto il piacere di poter compiere qualcosa che in condizioni normali, non belliche, non sarebbe permesso: l’omicidio come esercizio impunito di un potere assoluto.

Quanto alle convinzioni ideologiche dei soldati della Wehrmacht, poi, i due autori non possono fare a meno di constatare come quelle fossero solo di un piccolo gruppo. Parole d’ordine come “conquista dei territori orientali” o “difesa dai bolscevichi” non erano alla base delle azioni di guerra. Il “sacrificio” sui generis poi non apparteneva al sistema classico di valori militari, dunque, ricordano i ricercatori, “la dirigenza nazista non ottenne grandi successi quando cercò di promuoverlo nel corso del conflitto”.

La preoccupazione della stragrande maggioranza dei soldati era fare semplicemente ciò che veniva loro chiesto: “La violenza praticata dai soldati della Wehrmacht non è più ‘nazionalsocialista’ di quella praticata dai soldati inglesi o americani”, salvo quando è “finalizzata allo sterminio premeditato di un gruppo di persone”. “La guerra”, questa è la conclusione cui arrivano i due studiosi, “crea un contesto di eventi e azioni nel quale gli uomini fanno ciò che in altri momenti non farebbero. In quel contesto ci sono stati soldati tedeschi che hanno ucciso ebrei, ma senza essere antisemiti, e che hanno difeso ‘fanaticamente’ il loro Paese, ma senza essere nazionalsocialisti”.

“È tempo di finirla con la sopravvalutazione dell’elemento ideologico”, aggiungono Neitzel e Welzer, “l’ideologia può fornire motivazioni alla guerra, ma non spiega perché i soldati uccidano o perché possano trasformarsi in criminali”.