Altro che Jovanotti. L’unica carta di Veltroni è l’antiberlusconismo
11 Aprile 2008
L’antiberlusconismo è un
artificio politico che funziona sempre. Un passepartout ancora capace di aprire
le porte dei cuori di tanto popolo del centrosinistra. E così nell’ultimo
giorno di campagna elettorale – così come nell’ultima settimana – Walter
Veltroni torna sulla vecchia via e prova a recuperare una manciata di voti e a
scuotere il cuore degli indecisi lanciando una raffica di segnali “contro” il
suo avversario. Naturalmente, secondo uno schema ormai consolidato, non cita
mai il nome di Silvio Berlusconi ma il suo copione è quasi monotematico,
martellante e pesca a piene mani in un repertorio che prevede l’allarme per il
secessionismo della Lega, per il carattere anti-istituzionale della destra e
per il “disamore” del suo avversario per l’Italia. Argomenti che sembrano
tratti, pari pari, dalle campagne elettorali degli anni ’90 e stridono con la
bandiera del nuovo che il candidato premier del Pd pretendeva di imbracciare.
Ma evidentemente certi riflessi condizionati non possono essere spazzati via
con un colpo di spugna e con un frettoloso restyling e finiscono sempre per
risultare utili. Prova ne sono i decibel della piazza, in vertiginoso aumento
ogni qualvolta Veltroni ricorre a colpi sopra e sotto la cintola.
Per la chiusura l’ex sindaco
di Roma tira fuori dal cappello anche qualche testimonial di lusso, non
rinunciando a fare ricorso a quelle che i suoi avversari chiamano le
“veltronate”. E quindi, dopo l’abbraccio con George Clooney, Veltroni fa
tranquillamente ricorso a Roberto Benigni, Francesco Totti e Jovanotti. E poco
importa che non ci sia traccia del nome del ministro dell’Economia che dovrebbe
segnare a fuoco l’identità di un suo eventuale governo. L’obiettivo dell’ex
direttore de l’Unità è soprattutto quello di concludere coerentemente quella
che a molti è apparsa soprattutto una grande operazione di rinnovamento di
immagine e di comunicazione istituzionale sul marchio Pd piuttosto che un vero
progetto di governo. In questo senso completano perfettamente il mosaico frasi e
slogan, dettati dal palco del commizio finale di Piazza del Popolo come “il
governo del Pd farà rivivere quel sogno
italiano che il nostro paese visse nel dopoguerra. Pensate – dice Veltroni –
come cambiò l’Italia dal 1945 al 1960, e pensate come invece è rimasta ferma
negli ultimi 15 anni”. L’impegno del Pd sarà quello di “far ripartire
l’Italia, rendendolo un paese più veloce, con più energia”.
Certo chi si aspettava
qualcosa di davvero nuovo in termini di spunti programmatici, il guizzo, il
colpo di scena in grado di riaprire la partita sarà rimasto deluso. Di effetti
speciali e fuochi d’artificio nessuna traccia. Soltanto una costante
rivendicazione delle scelte fatte, in particolare lo smarcamento dalla sinistra
estrema (dimenticando l’alleanza stipulata con l’Arcobaleno per il Comune di
Roma), e una forte dose di fango fatta cadere sugli anni di governo del
centrodestra. Su questo fronte, insomma, la discontinuità rispetto alla
campagna elettorale del 2006 condotta da Romano Prodi si è sbriciolata sul traguardo
e ha sollevato il velo del nuovo, tornando a mostrare qualcosa di ampiamente
già visto.
Sull’altro fronte, quello del
centrodestra, il lavoro di comunicazione nelle ultime ore è tutto concentrato
sulla necessità di far passare il concetto del “voto utile”. E così Silvio
Berlusconi lancia “un appello specialissimo, anzi una supplica” agli
elettori di Udc e Destra, perché riflettano sulla legge elettorale e sul fatto
che questi partiti “non raggiungeranno la soglia del 4 alla Camera e
dell’8 al Senato”. Il rischio, dice a chiare lettere il candidato del
centrodestra, è di ritrovarsi dopo il voto “con l’angoscia di di avere fatto un
danno al Pdl e un piacere a Veltroni”. Un danno che potrebbe
concretizzarsi soprattutto nel Lazio, regione in bilico su cui il
centrosinistra può giocare la carta della potenza di fuoco degli amministratori
uscenti, ma anche in Liguria, dove il margine dovrebbe essere comunque molto
stretto. E perfino in Sicilia dove la vittoria non sembra essere in discussione
ma dove il raggiungimento del quorum al Senato da parte dell’Udc sottrarrebbe
comunque senatori preziosi al Popolo delle libertà.
Chiusa la campagna
elettorale, insomma, è l’ora del voto e dello spoglio all’ultimo respiro e
all’ultima scheda per capire se, soprattutto al Senato, l’Italia potrà davvero
assegnare a uno schieramento una vera patente di governabilità del Paese. E
regalarsi cinque anni di governo senza necessità di rimpasti, verifiche e alibi
di sorta.