Altro che tornelli! L’università è diventata il parcheggio della disoccupazione giovanile
18 Febbraio 2017
di Daniela Coli
Botta e risposta. Dopo la risposta di Renato Tamburrini alla professoressa Coli, il dibattito sui fatti di Bologna – gli scontri della settimana scorsa tra collettivi studenteschi e polizia dopo l’ordine del rettore di applicare i tornelli all’ingresso della biblioteca di Lettere – prosegue. Intanto, gli studenti oggi manifestano in piazza. Mentre si parla di una possibile retromarcia del rettore.
Renato Tamburrini descrive problemi che sono stati presenti in certa misura anche a Lettere, in piazza Brunelleschi, a Firenze, finché l’anno scorso sono apparsi i tornelli, un accorgimento che sarebbe stato necessario adottare prima, ma meglio tardi che mai. Resta il fatto che nelle biblioteche europee, non essendovi stato il lungo Sessantotto italiano, non ci sono mai stati problemi del genere. Tornelli bolognesi a parte, le università non sono mai state tranquille come dal 2014 ad oggi: gli stessi docenti che fino al 2014 incitavano gli studenti a scendere in piazza contro qualsiasi governo, adesso girano in gilet e doppiopetto, come bravi borghesi ottocenteschi. La questione giovanile non ha a che fare con i tornelli, ma con una scuola e una università inadeguate. Come dice l’amico Corrado Ocone, per essere filosofi e pensare non è necessario fare il professore o lo studente di filosofia.
Benedetto Croce non era un professore universitario; considerava più socialmente utili i ciabattini degli accademici che scrivevano volumoni sulle categorie kantiane per i concorsi. Così, per leggere un romanzo o una poesia non è necessario iscriversi a Lettere. Da noi l’università di massa è stata usata come parcheggio per la disoccupazione giovanile e come vivaio culturale del Pci. Fino alla grande crisi del 2008, e nonostante l’enorme debito pubblico, un posticino in qualche scomparto dello Stato per i laureati in Lettere si trovava sempre. Il disagio giovanile nasce dalla disoccupazione o dalla frustrazione di guadagnare appena mille euro al mese a 35 anni – quando va bene – con tanto di laurea, e di non avere i soldi per l’affitto, quando alla stessa età i genitori di questi ragazzi avevano già messo su famiglia e avevano i soldi per pagarsi un mutuo. Per i diciottenni italiani ha avuto davvero senso il bonus renziano di 500 euro per musei, teatri, concerti e anche libri, ma non scolastici, quando le spese più serie sono appunto quelle per i testi di scuola, o magari si desidera semplicemente un biglietto Ryanair invece che chiudersi in un museo?
Allargando il tiro, poi, se consideriamo l’enorme debito pubblico italiano, aumentato con il governo Renzi, e il welfare più costoso d’Europa, il nostro, ci si chiede spesso perché nessun governo sia riuscito a fare le riforme fatte da Schröder in Germania all’inizio degli anni Novanta, che hanno fatto del Paese governato da Angela Merkel una potenza economica. Nemmeno Schröder sarebbe riuscito a realizzare il suo piano di riforme se avesse avuto scuole e università occupate, manifestazioni continue in ogni città di studenti, accademici, intellettuali, registi, cantanti e attori. La fortuna di Schröder fu che, dopo la riunificazione della Germania, gli accademici marxisti della ex DDR vennero licenziati. Quelli dell’Unione Sovietica, si licenziarono per patriottismo. Da noi tutto è rimasto uguale, perché la questione comunista è diventata la questione nazionale, perché le formule con cui il Pci si è ancorato alla democrazia sono le stesse degli altri partiti della repubblica e sono passate anche dalla Prima alla Seconda repubblica.
Per tutte queste ragioni, la nostra cultura è ormai un po’ fuori dal mondo e in Italia non si capisce che la prima Brexit fu quella di Enrico VIII, come invece ha capito l’economista Zingales. La Brexit non è nazionalista, né razzista, né contro la globalizzazione. Vuole decidere con chi fare accordi. Possiamo anche maledire Brexit, ma non impedire ai britannici di preferire come immigrati ingegneri indiani a cuochi italiani. Se le multinazionali giapponesi, come la Toyota, hanno riconfermato i contratti dopo Brexit una ragione ci sarà. Noi italiani invece vorremmo che la Germania si facesse carico dei nostri problemi, ma anche con la flessibilità e la liquidità concesse dalla BCE di Draghi le cose non sono migliorate. E a soffrirne di più, ancora una volta, sono i giovani, che non vedono un futuro.