America First è il contrario della globalizzazione progressista

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America First è il contrario della globalizzazione progressista

26 Gennaio 2017

Ora che il Dow Jones ha superato quota ventimila punti, un risultato storico secondo gli operatori di Wall Street, tutte le cassandre che presagivano un disastro finanziario se Trump avesse vinto le elezioni sostengono che il Don è un traditore del popolo, che ha nominato nella sua squadra alla Casa Bianca come ministri gli ex di Goldman Sachs. Siamo vaccinati a questi fulminei rovesciamenti di frittata e si potrebbe rispondere che tra le “blue chips”, le multinazionali che hanno tirato la volata al Dow Jones, ci sono certo le banche (beati gli americani), che avanzano nell’ultimo trimestre, ma soprattutto i comparti dell’economia americana che Trump in campagna elettorale ha promesso di sostenere con una politica pro-crescita. Promessa mantenuta nel giro di poche ore con la firma dei primi memorandum su sanità e ambiente. Brillano i titoli del settore Oil e Gas (il rilancio dei gasdotti come il Keystone XL), della Sanità (United Health Group) e della Difesa (Boeing). 

Ma il punto è un altro e ancora si fatica a farlo passare per bene: Trump non ha mai detto che vuole chiudere la Borsa, abolire la economia liberale e il libero mercato. La sua vittoria ha segnato piuttosto la sconfitta del liberismo progressista, un sistema politico, economico e di consenso che è andato avanti ininterrottamente negli ultimi 25 anni sulle ali della globalizzazione, producendo una esplosione del debito pubblico, lo spostamento della produzione industriale fuori dagli Usa e la precarizzazione del lavoro in America, salari ridotti nonostante le roboanti promesse di nuovi milioni di posti nel “green” o nel web. Da Bill Clinton, che apre alla deregolamentazione bancaria e finanziaria, a Obama, che nonostante la forte politica di intervento dello Stato nell’economia non ha mai messo in dubbio il ruolo di Wall Street (né lo avrebbe fatto Hillary, che a suo dire si sentiva molto più a suo agio con i suoi grandi finanziatori che con i lavoratori americani), le condizioni di vita degli americani sono peggiorate. 

Il liberismo progressista nasce dall’abbraccio tra il big business, Wall Street, la Silicon Valley, l’industria dei media e dell’intrattenimento, da una parte, e il mainstream dei nuovi movimenti antirazzisti, femministi ed LGBT, multiculturalisti e contro ogni discriminazione, dall’altra. Hillary Clinton ne è la personificazione assoluta. Nel capitalismo finanziario di matrice progressista le istanze di liberazione e di avanzamento sociale vengono subordinate a un modello teorico ed economico in cui parole d’ordine come “differenza” e “diversità”, “merito” e “talento”, consentono a ristrette elite cosmopolite, composte dalle minoranze “race and gender” di scalare gerarchie e posti di potere, spacciando questa forma di individualismo per lotta di emancipazione, qualcosa che stride, a dir poco, con le marce per i diritti degli anni Sessanta. 

Tutto questo avviene mentre la globalizzazione desertifica le grandi città industriali, il mondo rurale, la piccola e media imprenditoria. Sempre di più il moralismo “politicamente corretto” delle elite su questioni come le differenze razziali, l’immigrazione o l’islamizzazione, suona insopportabile al paese reale, alla classe media e agli operai che perdono il lavoro, le pensioni e le tradizionali reti di sicurezza; in cambio dell’evaporare delle frontiere, di una immigrazione incontrollata diventata marxiano esercito di riserva della manodopera, che a sua volta finisce per alimentare i conflitti razziali. I grandi partiti americani, quello democratico in prima fila, si sono messi per anni al servizio della finanza internazionale per orientare il consenso e facilitare la ‘grande rapina’ del lavoro americano denunciata da Trump, in cambio di qualche diritto, magari i matrimoni gay o la legalizzazione della cannabis. Le donne americane hanno marciato furibonde contro il Don ma non si ricordano manifestazioni per le donne yazide schiavizzate in Siria. 

America First, lo slogan di Trump, è il contrario della globalizzazione progressista dei mercati, anche se Trump è atteso alla prova dei fatti, e vedremo se ridurrà le tasse senza avvantaggiare solo le classi abbienti o se terrà bassi i tassi di interesse. Una cosa è certa. Per adesso il Don ha sconfitto il sistema dominante e ha una carta da giocare. Quando Reagan prese il potere gli americani non se la passavano bene, “Ronnie” fu rieletto perché durante il suo mandato l’economia era cresciuta del 7 per cento all’anno. Bill Clinton avrebbe dovuto essere travolto dallo scandalo sessuale con la sua giovane stagista ma una crescita del 4 e mezzo per cento lo tenne in sella. Nonostante la guerra in Iraq, anche Bush fu rieletto perché l’economia continuava a crescere agli stessi livelli. E nonostante i disastri delle primavere arabe, anche Obama ha retto con un 3 per cento di crescita. Se l’economia fosse cresciuta di un punto in più, forse Hillary avrebbe vinto le elezioni. 

Come ha scritto Victor Davis Hanson sulla National Review, anche per Donald Trump vale l’oscuro frammento eracliteo “il carattere di un uomo è il suo destino” (ἦθος ἀνθρώπῳ δαίμων), ma nel caso del presidente Usa, come di chi lo ha preceduto, forse occorre sostituire la parola “destino” con “prosperità”.

***PS*** Trump Presidente! La Nuova America è il titolo del nostro libro su Trump che tra qualche giorno pubblicheremo come prima uscita della nuova collana editoriale dell’Occidentale, Postverità. Nelle immagini a corredo di questo articolo trovate qualche spiegazione in più sul nostro libro. Per maggiori informazioni l’email è r.santoro@loccidentale.it