Ammortizzatori sociali e Statuto dei lavoratori: a quando la riforma?

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Ammortizzatori sociali e Statuto dei lavoratori: a quando la riforma?

01 Marzo 2010

 

Il Governo ha promesso più volte che, dopo le elezioni regionali (perché mai dopo?) varerà in modo coordinato sia lo Statuto dei lavori, sia la riforma degli ammortizzatori sociali.

Il primo provvedimento dovrebbe indicare i soggetti aventi diritto (andando oltre i confini del lavoro subordinato classico); il secondo dovrebbe, invece, prevedere le prestazioni da erogare e i requisiti per accedervi.

La sfida è complessa, anche perché, in questa materia, occorre fronteggiare un forte impegno della sinistra politica e sociale che non si limita soltanto a fare delle proposte normative, ma le colloca in uno scenario culturale, sicuramente datato ed insostenibile, alla luce dei cambiamenti intervenuti nell’economia e nel lavoro, ma altrettanto portatore di un quadro di certezze e stabilità per tante persone che sopportano in prima persona gli effetti delle trasformazioni in atto.

In sostanza, la sinistra gioca sui temi del lavoro gran parte delle proprie chances elettorali.

Il centro destra, che ha avuto la possibilità fino a pochi anni or sono di dimostrare che le politiche di flessibilità "pagavano" sul versante della crescita ininterrotta dell’occupazione, si trova oggi a doversi misurare con un tasso di disoccupazione particolarmente elevato proprio nelle aree del lavoro precario e discontinuo. E’ sollecitato, quindi, ad estendere anche in questa direzione le misure di sostegno del reddito, ma non dispone di risorse adeguate per poterlo fare. Prima di procedere, tuttavia, sarà bene mettere a fuoco un minimo di impianto teorico, che parta dalla denuncia e dalla critica del sistema attuale a cui la sinistra rimane attaccata. E che costituisce il problema, non la sua soluzione.

Se è vero che spetta ai regimi liberali perseguire, allora, l’eguaglianza delle opportunità, non già quella dei risultati, da noi, capita invece una sorta di eterogenesi dei fini: si intendono realizzare i medesimi obiettivi, partendo però dalla messa a disposizione di differenti chances iniziali. Le diseguaglianze si annidano negli ordinamenti e da essi vengono perpetuate. Si tratta di una conseguenza inevitabile allorchè gli status sociali conseguiti divengono immodificabili. Fin che è possibile, i preesistenti regimi vengono estesi ai ceti sociali successivamente cooptati. Poi, quando le risorse non sono più sufficienti e si rendono necessarie le rinunce di chi ha voce in capitolo a favore degli esclusi, si produce automaticamente la seguente sgradevole alternativa: o le Cittadelle si chiudono ai nuovi venuti oppure fanno loro posto a tavola indebitandosi. A scapito, quindi, delle generazioni future, chiamate a rispondere delle mani bucate dei loro padri e nonni.

Da noi, si sono verificati ambedue i fenomeni. E, cumulandosi, hanno prodotto ulteriori danni. Vediamone le ragioni. Le Colonne d’Ercole del sistema giuslavoristico italiano (considerato nell’accezione ampia del diritto del lavoro, sindacale e previdenziale) sono sostanzialmente costruite su due leggi emblematiche, non a caso, coeve e appartenenti alla medesima stagione politica. Si tratta della legge n. 153 del 1969 (la riforma delle pensioni che è stata smontata pezzo per pezzo, ma con tanta cautela, negli ultimi vent’anni) e la legge n. 300 del 1970 (lo Statuto dei diritti dei lavoratori). Ovviamente, intorno a queste due imponenti querce (il riferimento arboreo è puramente casuale) è cresciuta una rigogliosa foresta, a presidio del welfare (in senso lato) all’italiana.

In particolare, va annoverata una pianta ad alto fusto, ampia ramificazione e profonde radici: il Servizio sanitario, creatura prediletta della Solidarietà nazionale della seconda metà degli anni Settanta (legge n. 833/1978), quando il Belpaese sopportava l’aggressione del terrorismo e il flagello dell’inflazione a due cifre.

La riforma sanitaria rimane, tuttavia, un’eccezione nel modello di stato sociale prevalente in Italia, a base lavoristico-occupazionale, in forza del quale, dunque, i diritti sociali sono annessi a una condizione lavorativa. Modello che si distingue, come è noto, da quelli con caratteristiche universalistiche, nei quali tali diritti vengono riconosciuti, nei termini ritenuti essenziali, a tutti i cittadini.

Tornando, però, alla Costituzione materiale della tutela del lavoro e alle leggi che la contraddistinguono, è agevole scorgere, in ambedue, una fitta trama di valori e princìpi comuni. Non solo: le due filosofie (come fossero sorelle siamesi) hanno camminato insieme in tutti questi decenni e, mano nella mano, si presentano al redde rationem del cambiamento. La legislazione del lavoro ha un suo asse centrale: il posto. E’ un sistema tolemaico ruotante intorno al rapporto di lavoro, dove si svolge il microcosmo del conflitto di classe. La sicurezza sociale interviene a garantire la continuità del reddito (corollario del posto) durante (si tratta degli interventi di sostegno come la cassa integrazione, l’indennità di malattia, ecc.) o al termine del periodo dedicato al lavoro. Non a caso, infatti, il regime di previdenza obbligatoria non è ragguagliato, come avviene in altri paesi, ad assicurare, in particolari momenti, un reddito minimo essenziale alle esigenze di vita, bensì a conservare, anche oltre la soglia del pensionamento, il livello di reddito (e il tenore di vita) acquisito sul lavoro.

La difesa del lavoro coincide con la difesa del posto. Anche a costo di inventarne di finti, di virtuali, di assistiti. Da noi hanno avuto poca fortuna i tentativi e gli strumenti di job creation, di mobilità nel territorio, mentre siamo stati maestri nel mantenere in vita posizioni lavorative decotte, magari attribuite ad aziende divenute ormai solo scatole vuote, conservate con le tecniche dell’imbalsamazione, unicamente perchè per inventarsi un rapporto di lavoro un padrone deve esserci. Intorno al posto si è sviluppata, in vari modi e con diversa intensità, una rete di garanzie: contro il licenziamento, contro lo jus variandi del datore, contro i rischi degli andamenti ciclici della produzione e del mercato.

E’ il posto di lavoro la più piccola del sistema di scatole cinesi, l’una incastonata nell’altra, che fanno da involucro alle relazioni contrattuali e alla legislazione di sostegno all’attività sindacale.

Ovviamente, la solidità dell’impalcatura di tutela non si presenta alla stessa maniera in ogni settore del mondo del lavoro. Così, per decenni, le organizzazioni sindacali hanno agito con la logica dello sconto: non voluto, ma subìto in nome dei rapporti di forza; in realtà, considerato inevitabile. Come dire: virtù pubbliche, vizi privati.

I rapporti di lavoro sono, pertanto, attraversati dalla regola della minima comune rigidità. Svetta (in barba a ogni privatizzazione degli anni ’90, ma confidiamo nelle riforme di Brunetta) il pubblico impiego, seguito dall’occupazione nelle imprese sindacalizzate dell’industria; vengono, poi, i settori meno strutturati (e più nuovi) dell’economia, giù giù fino agli ultimi gironi, al di qua dell’esile linea che separa il lavoro regolare da quello irregolare.

Il modello è rimasto, però, sempre lo stesso, magari con qualche diritto in meno o contenuti più ridotti. Significativo è il caso dei licenziamenti: nelle imprese in cui non vige una tutela a efficacia reale (con reintegrazione nel posto di lavoro in presenza di ingiustificato motivo), se ne è introdotta una ad efficacia obbligatoria (col pagamento di una penale). Più difficile immaginare forme e strumenti che aiutassero a trovare un diverso lavoro, che è poi il senso vero dei sistemi di flexecurity di cui tanto si parla. Quelli che ci hanno provato hanno conseguito risultati molto modesti.

A pensarci bene, anche l’ossessione della c.d. stabilizzazione finisce per identificare il lavoro con il posto ovvero con un particolare rapporto che tiene legati il lavoro al posto, fino al punto di mettere il secondo al servizio del primo.