Analizzare la retorica di Zagrebelsky e scoprire che è un po’ fascista
26 Luglio 2008
Dispiace dover polemizzare, ancora una volta, con eminenti giuristi come Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky ma un lettore dei classici del liberalismo non può rimanere indifferente a una ‘filosofia del diritto’ che si presenta come il fondamento stesso della democrazia liberale laddove, in realtà, discende da altri, non meno rilevanti, stili di pensiero maturati nei ‘secoli d’oro’ delle ideologie, il ‘700 e l’800. E’ casuale, del resto, la sempre favorevole accoglienza che i saggi e gli articoli dei due prestigiosi collaboratori di ‘Repubblica’ incontrano sul ‘Manifesto’ o su ‘Liberazione’ovvero su quotidiani che continuano a richiamarsi al comunismo? Intendiamoci, almeno in Italia, del liberalismo si sono avute varie versioni: in passato,ce n’è stata persino una legata alla ‘rivoluzione’(la ‘rivoluzione liberale’ di Piero Gobetti e di Augusto Monti, definito, quest’ultimo dai suoi estimatori torinesi ‘comunista liberale’, un ossimoro che tutto il mondo c’invidia) e a tutt’oggi ce ne sono di quelle che ritengono il conflitto e l’estensione illimitata dei diritti il punto d’approdo della teorica inaugurata da John Locke e ripresa da Thomas Jefferson. In tali questioni, ognuno la pensi come vuole e arrivi alle conclusioni che gli sembrano più corrette a patto, però, di non demonizzare de facto quanti non sono d’accordo con lui, facendoli apparire come biechi reazionari, al servizio dei potenti di turno. Su questa tentazione moralistica, che da sempre è la piaga della cultura italiana e che par divenuta la divisa costante del giornale fondato da Eugenio Scalfari, i due giuristi pongono il sigillo di un sapere vasto e profondo al servizio non della scienza, che insegue la ‘realtà effettuale’, ma di uno schieramento politico, che vuol mettere fuori gioco un leader scomodo e discusso.
Esemplare, al riguardo, l’articolo di Gustavo Zagrebelsky,
Nell’intervento in esame, viene proposta un’altra non meno eccentrica distinzione, quella tra ‘incostituzionalità e ‘anticostituzionalità’: la prima si richiamerebbe alla ‘legalità costituzionale’, la seconda, sarebbe <cosa diversa, cioè il tentativo di passare da una Costituzione all’altra>.<Cos’è dunque, si chiede Zagrebelsky, la controversia sulla Costituzione: una questione di legalità o di legittimità?>. In vero, sapevamo dai grandi scienziati politici del secolo scorso, che la legittimità di un sistema politico può fondarsi sulla ‘tradizione’ (l’autorità dell’eterno ieri), sul ‘carisma’ (l’innovazione: <sta scritto, ma io vi dico>) o sulla…legalità, intesa proprio come <conformità a norme>: ora spunta fuori una quarta species, la legittimità dello ‘spirito della Costituzione’, che non si esaurisce nell’osservanza dei suoi articoli. Ma qual’è, ci si chiede, la ragione di questa moltiplicazione dei pani e dei pesci? Non si può escludere che sia il timore che la ‘legittimità dei moderni’, fondata sul rispetto delle regole, comporti per quanti denunciano un governo di attentare alle libertà repubblicane, la fuoruscita dal regno del diritto e il rientro nell’arena delle ideologie, dove non è più possibile tenere comizi in toga e dare alle proprie critiche il marchio di un’autorità superiore, ex cathedra, certa e infallibile, quella della Legge Fondamentale (sottratta alla messa ai voti e alla conta delle teste).Insomma senza l’<anticostituzionalità>, quella di Zagrebelsky da ‘voce del diritto’ diventa ‘voce di un partito’ alla quale non serve granché appellarsi all’art. 1 della Costituzione, inteso <nel senso ciceroniano di una comunione basata sul legittimo consenso circa l’utilità comune>, bellissime parole che, per il fatto di denotare tutte le famiglie politiche, non ne connotano più nessuna (i classici possono servire a tutti gli usi e forse sarebbe meglio non coinvolgerli nelle nostre controversie).
Zagrebelsky passa quindi a parlare di <distruzione dello spirito pubblico> e di familismo endemico che <crea cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell’amico, secondo le leggi dell’affiliazione>. Chi segue le vicende politiche del nostro paese non può non concordare, vedendo quanti <omonimi> di potenti si trovano in Parlamento, nei palinsesti radiotelevisivi, nelle cattedre universitarie, nelle redazioni di giornali e case editrici, nei consigli di amministrazione di banche e imprese. E’ un malcostume riscontrabile tanto a destra quanto a sinistra e che trova la sua lontana origine in un dato sul quale, forse, non si è mai esercitata—o non si è esercitata abbastanza– la riflessione dell’intellettuale post-azionista torinese: l’assenza di un mercato reale che si traduce nel potere di assegnare privilegi, <immunità e impunità> conferito a quanti hanno un qualche seguito elettorale—veri e propri ‘padroni del vapore’ che promuovono socialmente i loro <clientes> sulla base di ‘rigidi principi meritocratici’ e attribuiscono a losche mene affaristiche lo status e il reddito acquisito dai <clientes> degli avversari.
Fatti i conti con l’epistemologia e con l’etica pubblica, Zagrebelsky dispiega tutta la sua sconsolata visione dell’Italia contemporanea: nella china, in cui ci hanno messo gli elettori italiani, scrive, <troviamo, da un lato, per esempio, indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l’indipendenza della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò che qualifica come ‘liberale’ una democrazia: sostegno, dall’altro, alle misure energiche, alla concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d’investitura, all’antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in breve a ciò che qualifica invece come ‘autoritaria’ una democrazia>.
Siamo in presenza di uno stile retorico che meriterebbe uno studio accurato da parte degli analisti, come Giorgio Fedel, interessati al ‘linguaggio della politica’. Come ogni retorica che si rispetti, infatti, esso non descrive nulla giacché mette da una parte le ‘cose buone’—sulle quali tutti, destra e sinistra, sostanzialmente concordano: chi è indifferente, in linea di principio, all’universalità dei diritti, alla separazione dei poteri, all’indipendenza della funzione giudiziaria?—e, dall’altra, le ‘cose cattive’ che, però, a un’attenta lettura, si rivelano anch’esse ‘cose buone’ ma viste attraverso lo specchio deformante di un Francis Bacon. Per limitarci a un esempio significativo, l’esigenza di un ‘esecutivo forte’, che faccia realmente da contrappeso al legislativo e al giudiziario, compare nella più antica costituzione repubblicana del mondo, quella statunitense, e, nell’Italia del secondo dopoguerra, fu oggetto costante della meditazione di un grandissimo storico delle istituzioni, Giuseppe Maranini, non immemore delle pagine weberiane sul rapporto tra ‘democrazia di massa’ e leader carismatici, che rendessero visibile la ‘responsabilità delle decisioni politiche e pertanto fossero sanzionabili in termini elettorali. Chiamare tutto questo <concentrazione e personalizzazione del potere>, <democrazia d’investitura> e <antiparlamentarismo> significa passare dal ruolo di studioso a quello di ‘intellettuale organico’, dalla cattedra al pulpito. Beninteso nessuno contesta al costituzionalista il diritto di diffidare del rafforzamento dell’esecutivo in una stagione politica che vede Berlusconi vincente: quello che gli si obietta è di ignorare che, Berlusconi o non Berlusconi, <il problema esiste> ed è la ragione per cui anni fa molti giovani guardarono con simpatia a Bettino Craxi che sembrava deciso a dare alla Presidenza del Consiglio vigore e rilievo costituzionale (almeno nelle intenzioni giacché poi, di fatto, come mostrano i magistrali studi della politologa allieva di Mario Stoppino, Cristina Barbieri, il suo governo non fu molto dissimile, sotto questo aspetto, da quello di Ciriaco De Mita).
In realtà, Zagrebelsky è un egualitario universalista—si potrebbe dire: un rousseauiano senza la dimensione ‘comunitaria’ e patriottica del Ginevrino—che ama trincerarsi, spesso e volentieri, dietro lo scudo del liberalismo. E’ quanto viene fuori nella sua difesa degli immigrati, dei rom, dei sinti e <domani chissà>.<I diritti—afferma—si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una società di uguali, il lato sarebbe uno solo:il mio è anche il tuo. Ma in una società di disuguali, l’unilateralità è la premessa dell’ingiustizia, della discriminazione, dell’altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china, non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della sicurezza>.
Eccoci arrivati, finalmente, al momento in cui il gioco si fa a carte scoperte giacché i ‘valori’ messi sul tavolo–rispettabili, anzi rispettabilissimi–sono i valori che dalla predicazione cristiana arrivano all’illuminismo francese ma che, trasferiti dalla dimensione etica, che trova tutti d’accordo, a quella politica , non solo non fanno più parte della filosofia liberale ma intendono esserne il liquidatore fallimentare.
<Il mio è anche il tuo>: <si può fare> senza togliere di mezzo il mercato e dare a un <potere immenso e tutelare> il compito di ripartire più equamente il prodotto sociale? I liberalcomunisti barano al gioco non perché ritengono intollerabile che una coppia senza figli viva in un attico di duecentocinquanta mq mentre una numerosa famiglia rom viva baraccata in un camper scassato ma perché pensano che l’etica liberale sia indifferente ai mali del mondo e ignorano deliberatamente che anch’essa si pone il problema dell’<ingiustizia> ma lo risolve in maniera ben diversa dall’egualitarismo: con l’incremento, grazie al mercato, delle opportunità di lavoro offerte a tutti che metteranno i più capaci e meritevoli nella condizione di comprarsi l’attico. In fondo è sempre l’eterno confronto della libertà con l’eguaglianza che i teorici del <nesso inscindibile giustizia/libertà> vogliono chiudere con qualche formuletta ircocervica trasfigurata dall’indignazione morale!
Zagrebelsky trova scandaloso che si possa dire a quanti bussano alle porte d’Italia <’a casa nostra’ vogliamo comandare noi: espressione pregnante che sottintende un titolo di proprietà tutt’altro che ovvio>. Sennonché quest’espressione non è stata impiegata da tutti i governi occidentali che hanno dosato la concessione della cittadinanza alle risorse disponibili e alle necessità dell’economia? Tutti fascisti? Gli Stati Uniti, l’Inghilterra,
Gli stati sono dei centauri: da una parte animali comunitari, dall’altra umani societari. I diritti di cittadinanza sono rivendicabili all’interno di un contesto istituzionale, ‘storico’ e ‘naturale’, e col tempo possono crescere di numero ma sempre arrestandosi alla soglia in cui il patrimonio accumulato dalla collettività nazionale non venga sostanzialmente intaccato. Una famiglia—gli stati sono anche unità familiari in grande—può accogliere gli estranei in maniera più o meno generosa, sottoporsi anche a sacrifici più o meno grandi, per venire incontro alla loro legittima richiesta di pane e di lavoro. Ma sull’entità di questi sacrifici, in democrazia, chi è, poi, chiamato a pronunciarsi se non il ‘popolo sovrano’? Ed è concepibile, in una società aperta e pluralistica, che la minore generosità degli uni rispetto agli altri—spesso dettata, a ragione o a torto, da quel bisogno di sicurezza su cui Hobbes fondava lo stato moderno—debba comportare la delegittimazione etico-politica dei primi? La squalifica morale degli avversari non è il sintomo più sicuro del fascismo?