Anatomia della guerriglia: contro chi combatte l’Esercito afgano?

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Anatomia della guerriglia: contro chi combatte l’Esercito afgano?

20 Dicembre 2008

L’afgano è un combattente nato. Da più di 30 anni è in guerra e nella storia ha sempre dato filo da torcere a chiunque avesse sceso il Kyber Pass o varcato l’Amu Darya. Oggi tocca alla NATO e agli americani. Per essere più precisi, la NATO è in Afghanistan solo per supportare l’ANA (Afghan National Army). Lo dice il principio dell’”Afghan face”: solo agli stessi uomini dell’Esercito afgano spetta il compito di combattere in prima linea i talebani. I militari NATO hanno un ruolo importante nelle fasi di addestramento e pianificazione e nelle fasi di supporto. Tutto il resto lo fa, o lo dovrebbe fare, l’Esercito afgano. La NATO fornisce il cosiddetto CAS (Close Air Support), l’effettivo moltiplicatore di potenza visto che la guerriglia non ha mezzi adeguati per contrastare aerei ed elicotteri, dà supporto logistico e di fuoco indiretto e garantisce tutta una serie di assetti che l’ANA ancora non ha: unità counter-IED (Improvised Explosive Device), MEDEVAC (MEDical EVACuation) ecc.. In operazione il compito dei militari NATO pertanto si limita, o dovrebbe limitarsi, al mentoring: consigliare, guidare e condurre gli uomini dell’ANA in battaglia. Diverso il discorso per Enduring Freedom che ha un altro mandato rispetto ad ISAF. Ma questa è un’altra storia. I protagonisti del conflitto afgano sono loro: l’ANA, da una parte, e talebani ed affiliati dall’altra.

L’ANA oggi è una realtà in crescita, ma è ancora lungi dall’essere diventata una forza in grado di battersi in modo autonomo. Coraggio e buona volontà certo non mancano, tuttavia i problemi sono ancora tanti. I numeri ufficiali parlano di un organico di oltre 70.000 uomini, ma gli effettivi superano di poco i 60.000. In totale ci sono cinque corpi di armata: uno schierato nell’area di Kabul e gli altri quattro in ciascun settore del Paese: nord, sud est e ovest. Se si eccettua il 201° Corpo di stanza nella capitale – che ha una componente meccanizzata basata su vecchi carri sovietici T-55 e T-62, qualche BMP sempre ex sovietico e una quarantina di M113 donati dagli USA – tutti gli altri corpi sono unità di fanteria. L’unità operativa di base è il kandak, battaglione, composto da circa 600 uomini. Per ciascun corpo sono inoltre in via di costituzione dei battaglioni di commandos addestrati dalle forze speciali americane secondo il modello dei Rangers dell’US Army.

I problemi principali sono l’equipaggiamento, le capacità di pianificazione e la logistica. Per la gran parte l’armamento è quello ex sovietico – Kalashnikov, mortai da 82 mm, RPG, pezzi di artiglieria D30 ecc.. – e di moderno c’è veramente poco. Il paradosso è che la guerriglia è dotata, più o meno, delle stesse armi. Gli americani stanno donando qualche migliaio di gipponi Humvee – ma abbiamo visto in Iraq quale sia il loro livello di protezione contro trappole esplosive, kamikaze ecc. – è in ballo una fornitura di qualche decina di carri Leopard 1 in via di dismissione dall’Esercito greco, e continuano le acquisizioni di fucili d’assalto M16 ed M4. Secondo quanto ci hanno riferito fonti di ISAF, l’obiettivo è quello di dotare l’Esercito afgano di soli M16 ed M4, e pensionare così tutti gli AK47, entro il 2011. Molto peggiore la situazione nel campo della pianificazione e della logistica. Se non fosse per la presenza degli OMLT – i team di consiglieri e addestratori dei contingenti NATO inseriti a tutti i livelli organici dell’ANA – l’Esercito afgano non avrebbe la capacità di pianificare un’operazione militare in modo autonomo. Con la conseguenza che l’andamento dell’azione sul campo sarebbe affidato esclusivamente all’iniziativa ed all’improvvisazione dei singoli comandanti dei kandak. Uomini d’indubbio coraggio, ma del tutto estemporanei in quanto a tattiche e dottrina. Stesso discorso per la logistica. Senza ISAF e senza Enduring Freedom, l’Esercito afgano non ha oggi la capacità di supportare e sostenere per tempi prolungati le sue forze sul campo. Altri due grandi problemi sono il livello di analfabetismo, pari addirittura al 90%, e gli equilibri interni, che devono rispettare le rigorose prescrizioni del Cencelli, etnico, locale.

Nel complesso, però, l’ANA è un’istituzione molto più affidabile e credibile della Polizia afgana. C’è meno corruzione e la gente lo sa. Per questo la preferisce.  La Polizia è un mezzo disastro: sta facendo di tutto per regalare sempre più spazio ai talebani. In molte parti del Paese, soprattutto nel sud, la popolazione è tornata a guardare agli studenti coranici, proprio perché stanca dell’inefficienza e della corruzione della Polizia. I talebani saranno estremisti e imporranno pure il burqa a donne e bambine, ma sono molto efficienti nel reprimere il crimine, nel dare la caccia ai ladroni e nel liberare la gente da gabelle e taglieggi.

Eccoci allora al problema. La guerriglia è in continua espansione e sta dando filo da torcere alla NATO ed agli americani in diversi parti del Paese. I talebani, lo sappiamo, anche perché i “ginistrada” e i “vauri” di turno non finiscono ma di spiegarcelo, sono in ascesa. Da ormai tre anni. Secondo uno studio di recente pubblicato dall’ICOS (International Council on Security and Development), controllerebbero addirittura il 72% del territorio afgano. Difficile trovare una conferma a questi numeri, anche se paiono francamente eccessivi. Sicuramente la presenza talebana è fortemente radicata in tutte le provincie del sud, nella provincia di Farah, quest’ultima situata nella regione ovest sotto controllo italiano, in alcune aree della regione orientale sul confine con il Pakistan e nell’ultimo anno anche a Kabul dove l’infiltrazione starebbe crescendo a dismisura. Il punto è che in alcuni casi si tratta di una presenza molto volatile, nel senso che anche se i talebani riescono a prendere il controllo di una certa zona, organizzandovi check point e pattuglie volanti su pickup, sono tuttavia costretti a cederlo ogni qual volta NATO ed americani decidono di riprenderselo. Per cui devono smobilitare e magari spostarsi per cercare altre aree dove andare a “piantar” bandiera.

L’aspetto molte volte trascurato è che i talebani sono tutt’altro che un movimento compatto. La leadership del Mullah Omar all’interno della shura di Qetta pare non più solida come una volta e, soprattutto, c’è la concorrenza dei fratelli pachistani del Tehrik e Taliban, il Movimento dei Talebani in Pakistan, nato nel dicembre del 2007 sotto la leadership della primula rossa Beitullah Meshud. Oggi, il Tehirk è probabilmente più forte dei talebani afgani e, nonostante la comunanza etnica ed ideologica, non è detto che le agende politiche dei due movimenti siano coincidenti. Anche perché il Tehrik è abbondantemente infiltrato dall’ISI che tenta di usarlo per i suoi scopi: indebolire il Governo legittimo di Kabul e mantenere il controllo sul mondo pashtun transfrontaliero.

Ma la guerriglia afgana non è solo talebani. Accanto a loro operano altri gruppi molto agguerriti, più o meno attigui al fondamentalismo degli studenti coranici, ma non integralmente riconducibili a questo. C’è Gulbbuddin Hekmatyar – uno dei vecchi arnesi della resistenza anti-sovietica e della guerra civile afgana e, soprattutto, il principale artefice della distruzione di Kabul nel 1994. Il suo gruppo, l’islamo-leninista Hezb e-Islami, è radicato soprattutto nella parte orientale del Paese, in particolare nell’area di Jalalabad, e negli ultimi tempi sembrerebbe tornato agli antichi splendori. Probabilmente grazie alla riattivazione degli antichi canali di clientela con l’ISI. Poi c’è la cosiddetta rete di Haqqani. Jalaluddin  Haqqani, un altro ex comandante della resistenza anti-sovietica originariamente membro della fazione Yunus Khalis dell’Hezb, ha ai suoi ordini una milizia molto organizzata e disciplinata di qualche migliaio di uomini che opera soprattutto nelle aree di confine con il Pakistan. Il vecchio Jalaluddin è stato dato più volte per morto, ma è sempre ricomparso sulla scena, anche dopo spettacolari interviste, barbone lunghissimo ed occhialoni da sole. Ma oggi la vera guida operativa della rete sembra affidata al figlio ventottenne Sirauddin. A quel che se ne sa uno testo: un vero afgano cresciuto a pane e Kalashnikov.

Infine – non ce ne siamo dimenticati, tranquilli – c’è al Qaeda. L’organizzazione di Bin Laden è ancora presente in Afghanistan e Pakistan. Il suo leader, il dottor Zawahiri – visto che nessuno sa che fine abbia fatto Osama – se ne sta probabilmente proprio in Pakistan, ma la sua struttura è stata in questi anni molto indebolita. Secondo alcune stime, Al Qaeda oggi dovrebbe contare su poco più di 2.000 volontari nelle aree di confine afgane. In parte, proprio perché gli americani ne avrebbero assottigliati i ranghi, in parte perché i vertici dell’organizzazione starebbero concentrando le risorse su nuovi fronti come la Somalia, dove i margini di autonomia e sopravivenza sono molti più ampi di quelli attualmente presenti in Afghanistan, e in Libano.

Se questa è la realtà della parte di guerriglia più motivata ideologicamente, ce n’è un’altra priva di un ben che minimo riferimento ideologico che tuttavia si oppone in modo altrettanto feroce alla NATO ed al Governo legittimo di Karzai. E che comunque non sarebbe nemmeno corretto definire guerriglia. Una miriade di altri soggetti della più disparata natura, criminali, trafficanti, ras, tagliagole, trombati, che mal digeriscono il controllo del territorio da parte di autorità “terze”. Personaggi che vogliono continuare a mantenere la loro autonomia e a fare quello che da secoli si fa in Afghanistan: trafficare. Per questi signori il territorio è fonte di gabelle, traffici e contrabbandi di ogni genere e non sopportano che un ISAF o un Karzai qualsiasi vadano ad infastidirli in quella che considerano casa loro. Ergo li combattono. Prendiamo, per esempio, l’ex sindaco di Herat, Ghullam Yahya Akbari. Ras locale che, dopo essere stato estromrsso dal presidente Karzai, gli si è rivoltato contro. Yahya si vanta di avere 20 basi nella provincia di Herat e da qualche tempo ha annunciato il jihad contro Karzai ed ISAF. In realtà, dietro la bandiera purista del jihad, si nasconde il semplice lordume terreno di traffici e rivalsa politica.

La strada per la stabilizzazione dell’Afghanistan resta dunque ancora lunga e difficile. Una delle condizioni della vittoria passa inevitabilmente per il rafforzamento dell’Esercito afgano che, prima possibile, dovrà assumersi in toto l’onere della guerra. L’altra condizione è la neutralizzazione degli elementi irriducibili della guerriglia (probabilmente il surge annunciato dagli Stati Uniti va in questa direzione). Perché, come sostiene il generale Petraeus, alcuni elementi sono irrecuperabili, e pertanto vanno catturati o uccisi, ma con gli altri ci si può anche sedere ad un tavolo. Sarebbe interessante capire a quale delle due categorie appartengano i vari Omar, Haqqani, Hekmatyar e compagnia.