Anche Bankitalia s’è accorta che la giustizia italiana sta morendo

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Anche Bankitalia s’è accorta che la giustizia italiana sta morendo

Anche Bankitalia s’è accorta che la giustizia italiana sta morendo

22 Dicembre 2008

Manca la meritocrazia nella progressione delle carriere dei magistrati civili (come pure di quelli penali). Quindi, le gratificazioni si cercano altrove, specialmente fuori dalla magistratura. Ad esempio, negli incarichi extra giudiziari che nel decennio 1993-2003 sono stati pari a 15 mila unità di cui 1.715 solo tra il settembre 2002 e il luglio 2003, cifre mai viste e sentite negli altri paesi europei. O peggio ancora nella politica. Dal 2004 in poi, se possibile, nonostante una legge voluta da Castelli per limitare questo sconcio, la tendenza è persino aumentata: tanto per fare un esempio nel solo semestre maggio-novembre 2008 gli incarichi conferiti dal Csm sono stati 622.

Il resto, nel panico che è ormai diventata la giustizia civile, lo sta facendo il cosiddetto “inquinamento normativo”, cioè il sovrapporsi di leggi e leggine spesso in contraddizione fra loro che rende l’ignoranza della legge, anzi la sua non comprensibilità, “patrimonio comune persino agli operatori del diritto”.

Benvenuti nell’Italia della ingiustizia incivile. Quella disegnata nel rapporto che Bankitalia ha commissionato all’Università di Bologna e ai suoi esperti dell’ufficio studi interno a via Nazionale, ma non ha ancora avuto il coraggio di rendere pubblico.

Cominciamo con il mestiere di magistrato: è diventato un trampolino di lancio molto ben retribuito dallo stato per individui ambiziosi che, quando non arrivisti, mirano a ben altro. E andrebbe anche tutto bene se non fosse il sistema giustizia, nella fattispecie civile, a rimetterci, come evidenziano in numerosi passaggi gli autori di un esplosivo rapporto sul settore commissionato da Bankitalia ad alcuni studiosi interni, coadiuvati nelle ricerche dagli esperti di mezza Università di Bologna.

Il rapporto, anzi i cinque rapporti, erano già pronti per il workshop non aperto al pubblico che Bankitalia aveva organizzato lo scorso 18 ottobre a  palazzo Koch a Roma sui malesseri della giustizia civile. A distanza di due mesi gli atti non sono ancora stati resi pubblici. Perché? Chi – come il sottoscritto -, li ha potuti leggere un parere se lo è fatto: l’analisi impietosa sui malesseri della giustizia civile in Italia in essi contenuta avrebbe portato, se resa nota, a nuove polemiche che le istituzioni economiche del Paese non si sentono di sostenere. Per cui si è preferito attendere tempi migliori per la divulgazione.

Il titolo parla già da solo: “Metodi per un’analisi (del funzionamento) della giustizia civile in Italia”. Poi i nomi degli studiosi di Bankitalia che vi hanno preso parte – Magda Bianco, Silvia Giacomelli, Cristina Giorgiantonio, Giuliana Palumbo e Bruna Szego, sotto la supervisione di Marino Perassi, avvocato capo della consulenza legale, e Salvatore Rossi, direttore centrale per l’area ricerca economica e relazione internazionali-, facevano intendere che si sarebbe parlato e scritto fuori dai denti tra operatori del settore.

Nella prima nota del rapporto introduttivo, “La durata (eccessiva) dei procedimenti civili in Italia: offerta, domanda o rito?”, si sottolinea il fatto che “le autrici, nel ringraziare per i numerosi e preziosi suggerimenti Giuseppe Carrera, Claudio Consolo, Francesco Contini, Marco Fabri, Giuseppe Di Federico, Michele Grillo, Pasqule Liccardo, Marino Perassi, Renato Rordorf, rimangono le uniche responsabili delle opinioni espresse che non coinvolgono in alcun modo l’Istituto di appartenenza”. Cioè, la stessa Banca d’Italia.

E cosa contenevano queste “opinioni espresse” di così dirompente? Non c’è che l’imbarazzo della scelta nello scegliere in un’antologia di citazioni. A pagina 8 si evidenzia che la durata media dei processi è più che raddoppiata dal 1947 ai giorni nostri.

A pagina 9 si apre la polemica sulla trasparenza e sulle statistiche: fino al 2001 siamo in grado di conoscere quanto dura effettivamente un processo civile in primo grado, cioè 998 giorni. Da quell’anno in poi si parla solo di stime, peraltro al rialzo sulla cifra precedente. A pagina 11 si afferma che “l’analisi comparata non segnala una carenza significativa di risorse”. E ci si riferisce ai soldi destinati alla giustizia negli altri paesi europei presi come paragone della ricerca, tra cui Francia, Spagna, Germania, Olanda e Austria. In Italia, un tribunale serve circa 55 mila persone, in Germania a oltre 100 mila.

A pagina 6 si parla degli indicatori della Banca mondiale che “mostrano per l’Italia tempi superiori a quelli di tutte le economie avanzate: per risolvere una controversia commerciale nel nostro Pese nel 2007 occorrerebbero 1210 giorni contro una media dei paesi Ocse di 415 e dell’Unione europea di 472”. Nelle pagine 14 e 15, invece, si sottolinea la difficoltà di incentivare i giudici a produrre decisioni di qualità. Le riforme sinora adottate possono al massimo aumentare la celerità del giudizio non migliorare il prodotto.

Il nodo centrale di tutto il malfunzionamento è contenuto a pagina 17 del rapporto introduttivo in questione e viene individuato nella difficoltà di valutare l’operato dei magistrati rispetto a standard qualitativi. E questo perché le decisioni su suddetti standard sono prese da soggetti interni all’organizzazione “che non sono in una posizione gerarchica rispetto a color che essi debbono valutare”. Insomma, è il problema del Csm e delle correnti politiche che lo compongono.

A pagina 19, a proposito di carriera e progressioni, si evidenzia che “nei fatti il sistema ha realizzato una progressione di carriera quasi del tutto automatica e scandita esclusivamente dall’anzianità. Le statistiche relative ai passaggi di qualifica nel decennio 1993-2203 evidenziano come il tasso di promozioni nel periodo sia stato prossimo al cento per cento… per quasi tutti i magistrati erano sufficienti 28 anni di servizio per raggiungere il vertice della carriera”.

Poi il passaggio “bomba” citato all’inizio, che si trova a pagina 23: “In un contesto in cui sono pressoché assenti gli incentivi monetari e deboli quelli legati alla progressione di carriera, la scelta dei comportamenti resta affidata al senso di responsabilità di ognuno”. Che è una maniera elegante di dire che ciascuno fa quello che preferisce.

E infatti gli indici di produttività monitorati dagli studiosi di Bankitalia parlano di oscillazioni nel 2004 di sentenze prodotte in primo grado che vanno da un minimo di 30 a un massimo di 180 l’anno, a seconda dei giudici e del luogo di residenza, e in appello da un minimo di 98 a un massimo di quasi 400.

Ma il bello, anzi il brutto, deve ancora arrivare: “La mancanza di incentivi a perseguire le finalità dell’organizzazione può trovare compensazione nella ricerca di riconoscimento personale; possono svilupparsi tendenze a cercare gratificazioni all’esterno, anche nella forma di attività extra giudiziarie”.

A pagina 38 di questo rapporto si cita un altro fattore, insieme alla enorme litigiosità italiana dovuta all’eccessiva presenza di avvocati che si fanno pagare ad attività invece che a risultato, e lo si individua con il polemico nome di “inquinamento normativo”.

In pratica “la complessità e la farraginosità della legislazione, l’oscillazione eccessiva e la contraddittorietà della giurisprudenza generano incertezza negli operatori e ne accrescono i costi di apprendimento e di adeguamento alle regole; ciò può favorire il verificarsi di situazioni che danno luogo a controversie e, nelle liti, disincentivare le parti dal ricercare soluzioni amichevoli”.

In parole povere, questo significa che, nel caos, prosperano i parassiti. Siano essi quegli avvocati che spingono il cliente a fare causa comunque, o gli approfittatori dell’insolvenza. O, perché no?, un parte non piccola degli stessi magistrati che utilizzano la loro funzione decisionale come viatico per altre attività parallele o per acquisire quella popolarità che è il presupposto di ogni attività politica.