Anche in Australia le gang islamiche a caccia di ragazzine

LOCCIDENTALE_800x1600
LOCCIDENTALE_800x1600
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Anche in Australia le gang islamiche a caccia di ragazzine

13 Maggio 2017

“Vedere ragazze in bikini è qualcosa a cui non è abituato, qualcosa di diverso dall’ambiente in cui è cresciuto”, un giudice australiano la settimana scorsa ha liquidato così il caso di un adolescente afghano accusato di aver molestato almeno 8 donne sulle spiagge dell’isola – adolescenza che gli è stata attribuita in maniera piuttosto sbrigativa, forse per chiudere in tempi più veloci la pratica, considerando che l’individuo era stato trovato senza documenti. Il giudice della ‘feroce’ Australia, Paese che negli ultimi anni ha dato una stretta sulle politiche migratorie, si è quindi inventato un comodo escamotage, e un perfetto precedente, per evitare di finire bersagliato dalle accuse di “islamofobia”. Viene da chiedersi se d’ora in avanti nel Paese dei canguri si potranno molestare o stuprare donne in costume da bagno sbandierando il vessillo delle “differenze culturali”. Se poi, come per l’afghano in questione, avete perso uno dei genitori e siete quindi ancora più fragili emotivamente, per il giudice di turno l’iter giudiziario sarà ancora più breve.

L’ultimo episodio, in realtà, va ad aggiungersi al faldone di casi simili che si sono moltiplicati in Australia negli ultimi anni. Nell’estate del 2000, quando regnava l’euforia per le Olimpiadi di Sydney, da agosto a settembre, una banda di quattordici libanesi musulmani Ã¨ andata indisturbata a caccia di minorenni e diciottenni per lunghi mesi. Carne bianca, giovane, occidentale, erano queste le prede, dichiarate, della gang islamica. Attacchi talmente violenti, degradanti e umilianti per le donne che un giudice li ha descritti come “peggiori di un omicidio efferato”, aggiungendo che “di eventi simili si è sentito parlare in tempo di guerra”. Sono trascorsi anni prima che questi criminali finissero in un’aula di giustizia e 9 di loro sono stati condannati, gli altri (la gang era composta da 14 persone) sono stati scagionati per assenza di prove. Duecentoquaranta gli anni di galera complessivi inflitti dai giudici. Ma nel giro di quindici anni, 4 condannati sono stati rilasciati in libertà condizionata dopo aver scontato meno della metà della pena, un altro è stato rilasciato per poi tornare in galera per altri crimini. Nessuno tra i membri della gang ha mai dimostrato il benché minimo segno di pentimento.

Tutto è iniziato il 4 agosto del 2000, quando una quattordicenne che viaggiava verso Punchbowl, sobborgo a sud-ovest di Sydney, è stata circondata da quattro uomini. Pugni, strattoni, schiaffeggiata con preservativi, e poi l’avvertimento, “tra un po’ verrai violentata”. Mentre un altro avvisava il resto della banda: “Ho una puttana con me, fratello, andiamo verso Punchbowl” (riecheggia il verbo di Osama bin Laden contro le “prostitute ebree e occidentali”). Dopo qualche giorno, il 10 agosto, tocca a una diciassettenne e una diciottenne finire prede della banda in un famoso centro commerciale di Chatswood. Nel silenzio della notte vengono violentate e seviziate dietro i servizi igienici del parco per oltre due ore da 8 componenti della gang. Abbandonate esanimi a mezzanotte e scoperte da una coppia che passava lì per caso.

Due giorni di pausa e poi i libanesi colpiscono ancora. La violenza diventa sempre più brutale. Due di loro violentano a turno una sedicenne, mentre il resto del branco la immobilizza ridendo. Il 30 agosto la preda ha diciotto anni, è in tailleur mentre torna da un colloquio di lavoro in treno. La ragazza viene circondata, trascinata in un parcheggio isolato vicino la stazione di Bankstown, violentata venticinque volte da tutta la banda al completo – 14 individui adulti – per più di sei ore. “Mi ricordo il fruscio delle sue mani, e poi il freddo metallo della pistola sulle tempie: ‘Non ti spostare cagna, o sei morta’”, dice la ragazza testimoniando davanti alla corte. Il 4 settembre, due sedicenni vengono rapite alla stazione di Beverly Hills e trascinate in un appartamento: sono in tre a violentarle per quattro ore. “Ve lo meritate perché siete australiane”. La polizia, nel corso degli anni, ha poi ammesso che potrebbero esserci molte altre donne vittime di molestie e sevizie, donne che, impaurite, non hanno trovato il coraggio di denunciare i loro assalitori. Come dire che non sapremo mai precisamente quante sono state le vittime della gang, proprio come nel caso di Rotherham in Gran Bretagna, che abbiamo raccontato sulle pagine dell’Occidentale.

Anche la stampa australiana, all’epoca dei fatti, affrontò con una buona dose di ipocrisia la vicenda amplificando le accuse di “islamofobia”, con i giornali messi sotto pressione da pezzi della comunità islamica del Paese che diramavano comunicati e organizzavano proteste per ribellarsi all’atmosfera di sospetto che stava calando sulla comunità stessa dopo le prime condanne. “La comunità libanese australiana esige che i riflettori vengano allontanati da essa e dai singoli autori degli stupri”, si leggeva in uno di quei comunicati. Bob Carr, ministro degli Esteri tra il 2012 e il 2013, venne letteralmente asfaltato dalla stampa quando decise di rendere pubblici i nomi degli stupratori. Del resto, solo nel 2002, a due anni di distanza dagli stupri e dalle molestie, affiorarono le prime rivelazioni degli investigatori sul caso, ma, ancora una volta, i giornali locali diedero scarsa evidenza a quello che era accaduto. E solo quindici anni dopo la stampa internazionale iniziò a occuparsi del caso, quando qualche giornalista inglese si prese la briga di raccogliere le confessioni di alcune delle ragazzine, ormai donne, terrorizzate perché intanto alcuni degli stupratori erano tornati a piede libero.

Guai a parlare di “stupri razziali” o a ricordare alcune delle frasi pronunciate dai membri della gang: “quando ti senti triste, maltratta una cristiana o una cattolica, ti sentirai meglio”. Guai a ricordare che, durante le udienze, le famiglie degli imputati sputavano addosso ai funzionari giudiziari e ai legali delle vittime. Guai a ricordare che “sharmoota“, puttana in arabo, era una parola che riecheggiava puntualmente nelle aule di giustizia. E così anche nella ‘feroce Australia’ calava il bavaglio dell'”islamicamente corretto”, e forse, a questo punto, si capisce meglio perché gli elettori australiani, negli ultimi anni, hanno premiato quelle forze che una volta andate al governo si sono impegnate a inasprire le politiche sulla immigrazione fuori controllo.