Quando si parla di romanzo e finanza americani – la “finance novel” – viene subito in mente Jay Gatsby. L’antieroe creato da Francis Scott Fitzgerald è modellato su persone in carne e ossa, realmente esistite, che lo scrittore conobbe nei rutilanti anni Venti, l’epoca dei soldi facili e della grande euforia speculativa. Come la coppia Fuller & McGee, due baldi, o per meglio dire ribaldi, broker newyorkesi che nel 1922 finirono in bancarotta dopo aver sottratto fondi ai loro clienti. Vennero condannati per frode finanziaria in un processo che fece grande scandalo.
I due erano collegati ad Arnold “The Brain” Rothstein, l’uomo d’affari implicato in ogni sorta di losco traffico del momento, che nel romanzo di Fitzgerald prende il nome di Meyer Wolfsheim. Fu lui a trasformare il crimine organizzato in un big business, un sorta di grande corporazione che aveva Rothstein stesso al vertice. Come ha scritto Fernanda Pivano, la tecnica di Fitzgerald era quella di costruire personaggi “evocati da accenni parchi abbastanza da permettere alla fantasia del lettore di svilupparli a volontà con la propria immaginazione”. Nacque il cliché del finanziere d’assalto: quegli uomini tanto scaltri quanto corruttibili che diventarono l’icona negativa preferita dal pubblico hollywoodiano e dai lettori di narrativa popolare tra le due guerre.
“E’ incredibile come tutti facessero quattrini in America, e come tutti si divertissero e fossero contenti”, ha scritto la Pivano parlando degli anni Venti. “Dopo l’isterismo anti-rosso, l’isterismo del sesso e via via tutti gli altri, l’America era invasa dall’isterismo dei quattrini. Il rialzo della General Motors, il 4 marzo 1928, fu festeggiato come portatore di nuove gioie. In realtà fu l’inizio dello sfacelo che travolse il Paese l’anno successivo. L’utopia del benessere per tutti era crollata. L’età del jazz era finita”. In queste parole c’è uno filo di sprezzante compiacimento sul destino del capitalismo all’epoca della sua prima grande crisi finanziaria. La stessa sensazione di malessere che si prova leggendo i capolavori della “Lost Generation”. Una mancanza di fiducia nel sistema economico della democrazia americana che spinse molti intellettuali a lasciare il proprio Paese per rifugiarsi nel Vecchio Continente.
La letteratura americana degli anni Venti e Trenta sembrava aver perso ogni fiducia nella razionalità come motore della vita umana; nel progresso come mezzo per conquistarsi un’esistenza migliore, e nei valori tradizionali come la rispettabilità e la decenza ridotti a sinonimi di bigottismo. L’intraprendenza economica era una colpa in grado di trasformare ogni uomo d’affari in un potenziale criminale. Anche sui protagonisti di “Furore” di John Steinbeck, uscito nel 1939, in pieno New Deal, aleggia il fantasma spietato del grande capitale. La famiglia contadina dei Jod lascia l’Oklahoma per un lungo viaggio biblico verso la California ma la terra promessa non offrirà alcuna salvezza. Il mondo fallito e dorato di Fitzgerald si riflette in quello povero e spietato di Steinbeck: dalle stelle di Long Island si piomba nelle stalle della sterminata provincia americana, anche se la griglia filosofica resta identica: uomo mangia uomo, il più forte prevale sul più debole, i ricchi vincono e ai poveri resta solo tanta rabbia. Il 7 ottobre del ‘29, due settimane prima del crack di Wall Street, esce “L’urlo e il furore” di William Faulkner. Dopo il realismo caustico di Fitzgerald, e prima dello stile epico di Steinbeck, ecco lo sperimentalismo di Faulkner: il ritratto del vecchio Sud feudale e contadino ormai decaduto, sconfitto dal nord ricco, borghese e mercantile. Ancora impotenza, desiderio di fuga.
Il capostipite (moderno) della finance novel è l’Emile Zola di “L’Argent”, romanzo uscito in Francia nel 1841. Un tributo al potere dei soldi che, nelle mani del faccendiere Saccard, si moltiplicano tanto velocemente da creare una “Banca Universale”. Anche negli Stati Uniti di fine Ottocento c’è una storia che ha fatto scuola, per ambientazione, propulsione simbolica e sgomento irrazionale: “Bartleby lo scrivano”. Nello studio legale di Wall Street descritto da Melville si svolge “un lavoro discreto fra i titoli, le obbligazioni, le ipoteche di uomini abbienti”. Nel 1903 appare “The Pit” di Frank Norris che può essere considerato il primo romanzo sui “futures” e i “derivati”. Norris, che aveva letto Zola, scrive una trilogia sull’industria del grano e sulle speculazioni finanziare che fiorivano intorno a questa merce (‘Pit’, in gergo, è un settore della Borsa legato a una determinato prodotto).
Nel 1908 è la volta di “The Moneychangers” di Upton Sinclair, un autore più noto di Norris al pubblico italiano. Sinclair era un “muckraker” (letteralmente, “rimestatore nel letame”), una parola coniata da Teddy Roosevelt per indicare in modo dispregiativo quei giornalisti che facevano fortuna con gli scoop sulle frodi finanziare, la corruzione politica ed economica. Intendiamoci, Sinclair non era affetto da "travaglite". Il suo romanzo è critico ma propositivo, anticipa le riforme degli anni successivi come quella del sistema bancario. “The Financiers” di Theodore Dreiser, pubblicato nel 1912, punta il dito sulla crisi del sistema bancario, sugli istituti di credito spesso insolventi che si erano diffusi a macchia d’olio nel Paese in mancanza di una autorità di controllo centrale. Incontriamo un altro finanziere con il pelo sullo stomaco, Henry Worthington Cowperwood, uomo d’affari “per istinto”, che scambia azioni con la stessa levità di un poeta. Anche Dreiser si ispirò a un personaggio realmente esistito, Charles Tyson Yerkers, grande corruttore di ufficiali pubblici e lobbista d’assalto. Una vasta produzione popolare, comica e satirica, avrebbe preso di mira i padroni della Borsa, i “cattivi” dell’Hard-Boiled e dei Pulp Magazines.
Nel frattempo la vulgata storica costruiva il mito del New Deal, di un Paese che sembrava risvegliarsi dal vampirismo finanziario affidandosi alla solidarietà del welfare. Era il sogno di uno Stato giusto che ti segue dalla culla alla tomba. In realtà nel 1938, cinque anni dopo che Roosevelt era entrato alla Casa Bianca, i tassi di disoccupazione restavano alti e il mercato azionario non aveva recuperato un granché. Il presidente se la prese con il Big Business ma, a furia di iniettare liquidità nel sistema, la ricetta statalista provocò un’altra ondata inflattiva. Bisogna aspettare gli anni Cinquanta per ritrovare scrittori che mostrino di avere fiducia nel capitalismo, un modello economico che dopo la Seconda Guerra mondiale si preparava a una colossale rimonta.
Dopo tanti maschietti pessimisti c’è posto per una donna eclettica e ottimista. Ayn Rand. Questa scrittrice non è passata alla storia solo per i suoi romanzi ma per la sua filosofia di vita. Una visione che finalmente recuperava i valori della Ragione, del Progresso, del merito, dello spirito di iniziativa individuale. La Rand è considerata la stella polare di un certo conservatorismo americano libertario senza essere anarchico, rispettoso dello Stato fino a quando non pretende di sostituirsi all’individuo. Era nata in Russia nel 1905 e aveva sperimentato sulla sua pelle la rivoluzione comunista, diventando una nemica implacabile del collettivismo in tutte le sue forme. Nei suoi romanzi il finanziere appare un modello morale da seguire e da esaltare. Sono i tipi umani che incontriamo in “Atlas Shrugged” (la rivolta di Atlante), uscito nel 1957. “Siamo il popolo che ha creato la frase ‘fare soldi’ – dice uno di loro – nessun altro linguaggio o nazione aveva usato prima di noi queste parole. Gli uomini hanno pensato sempre alla ricchezza come a un qualcosa di statico, che può essere diviso, trasportato, lottizzato, oppure ottenuto grazie a dei favori. Gli americani sono stati i primi a capire che la ricchezza può essere creata. La frase ‘fare soldi’ incarna l’essenza della moralità umana”.
“Atlas Shrugged” è lungo più di millecento pagine ed è uno dei libri più letti dagli americani dopo la Bibbia. Se fino a quel momento la letteratura aveva rappresentato in maniera piuttosto convenzionale la ricchezza, facendo del commercio e della finanza qualcosa di immondo e materialistico (immondo perché materialistico), la Rand racconta in modo eloquente la spiritualità del denaro. L’uomo d’affari acquista una stazza romantica, diventando l’emblema del coraggio, dell’integrità, della volontà di cambiamento che anima il genere umano. I cattivi invece appaiono come una corte di predatori e parassiti che vorrebbero espropriare la ricchezza altrui o costringere la società in regolamenti troppo limitanti. Il Martedì Nero, la crisi del ‘29, il terremoto dei mercati, non sono più delle punizioni divine o un pegno da pagare alla hubris terrena, ma dei fenomeni ciclici del capitalismo. Nei romanzi della Rand si vede la luce alla fine di questo tunnel economico ed è una storia fondata sulla speranza e sull’impegno.