Anche la Turchia si chiede dove va l’Europa
24 Marzo 2007
di Barry Rubin
Prendiamo in esame due questioni di fondamentale importanza riguardanti la Turchia. La prima, è la direzione che il paese sta prendendo. La seconda, è l’entrata in crisi delle relazioni con gli Stati Uniti. I turchi ad aprile saranno chiamati al voto per scegliere il nuovo presidente della repubblica e a novembre per eleggere il parlamento. Se il premier Erdogan deciderà di candidarsi alla presidenza, non troverà ostacoli. Il suo partito Giustizia e Sviluppo (Akp) è in posizione di forza, a fronte di un’opposizione divisa e non in grado di esprimere un programma comune o un leader carismatico.
Si ripresenta, allora, l’interrogativo centrale della politica turca: l’Akp è un partito conservatore e tradizionalista, che cerca di far guadagnare alla religione islamica maggiore spazio pubblico o, al contrario, è un partito islamista travestito da moderato che opera per l’islamizzazione della società turca? L’argomento è di cruciale importanza per il futuro del paese e nel partito sono molti i sostenitori di entrambe le posizioni. In un certo senso, forse, hanno tutti ragione. C’è chi è consapevole del fatto che il successo dell’Akp è dovuto alla sua moderazione e alla volontà di aderire all’Unione Europea (che è anche un modo per far fronte all’elite che ha a lungo dominato la scena politica turca, quella kemalista pro-democratica e secolare), e ci sono gli elementi più oltranzisti che vorrebbero fare del paese una versione edulcorata dell’Iran per disfarsi una volta per tutte dell’eredità di Ataturk. Dopo aver conquistato il controllo delle massime cariche istituzionali – il parlamento, la premiership e presto, chissà, anche la presidenza -, l’Akp ha tutte le intenzioni di collocare gli uomini giusti al posto giusto (soprattutto insegnanti e giudici) e di fare leggi in modo da rendere il suo dominio sulla società totale e irreversibile.
Il problema, però, è che più l’Akp accresce la sua forza in assenza di un’opposizione efficace, più le sue ambizioni diventano grandi. L’Akp deve dare prova di moderazione se non vuole andare incontro all’ostruzione del potere giudiziario, alle critiche dei media e alle sconfitte elettorali. Ad ogni modo, se il partito di Erdogan dovesse incrementare ulteriormente il suo potere, la Turchia scoprirà a breve quale sarà l’orientamento dell’Akp.
Nel frattempo, emergono problemi anche sulla scena internazionale. La nuova maggioranza democratica al Congresso americano ha già in cantiere una risoluzione che sancirà il riconoscimento del genocidio degli armeni compiuto dai turchi durante la prima guerra mondiale. Se la risoluzione verrà approvata, i turchi – non solo i politici ma l’intera popolazione – ne saranno gravemente offesi e reagiranno con durezza. L’antiamericanismo, già molto elevato, salirebbe alle stelle e le frange estremiste si rafforzerebbero: gli elementi più radicali dell’Akp, i nazionalisti e i quasi islamisti del Partito del Movimento Nazionale (MHP).
La Casa Bianca, sia a presidenza democratica che repubblicana, esprime da sempre il suo timore per un’eventualità di questo tipo e senza clamori cerca di far comprendere al Congresso che un simile provvedimento danneggerebbe gli interessi degli Stati Uniti. Ma oggi il Congresso non ha alcun interesse ad ascoltare l’opinione dell’attuale presidente sull’argomento. È indubbio che migliaia di armeni, probabilmente 600 mila se non un milione, furono uccisi dai soldati ottomani o da milizie irregolari, come è indubbio che le loro proprietà furono sottratte senza un indennizzo, spesso anche dai vicini di casa. Si è trattato certamente di un avvenimento terribile che ha continuato a scioccare il mondo anche negli anni a seguire. Se nei decenni passati le comunità e i movimenti nazionalisti armeni avessero posto maggiore attenzione sul ricordo dei massacri subiti, avrebbero guadagnato certamente il supporto della comunità internazionale, mentre i turchi, rispetto a oggi, avrebbero subito più critiche, più danni alla loro reputazione e più pressioni per il rilascio delle scuse ufficiali e per il pagamento dei risarcimenti (che con molta probabilità l’Europa avrebbe posto tra le condizioni per l’ingresso nell’Unione).
Ma gli armeni hanno scelto una strategia diversa, impuntandosi sul riconoscimento del genocidio. Hanno insistito nell’accusare l’Impero Ottomano di aver commesso il più terribile di tutti i crimini, di cui l’attuale repubblica turca, fondatasi proprio sulle ceneri di quell’Impero e di coloro che l’hanno governato durante la prima guerra mondiale, ha ereditato la responsabilità. La strategia armena, però, ha presto mostrato i limiti che ne hanno decretato il fallimento. In primo luogo, gli armeni non sono riusciti a dimostrare che l’Impero Ottomano abbia deciso sistematicamente di sterminarli, non avendo raccolto prove sufficientemente attendibili. E così quella che si prospettava come una facile vittoria armena sui turchi si è trasformata in un contenzioso sempre più aspro. Secondo, l’accusa ha messo i turchi sulla difensiva con il risultato che, oltre al genocidio, non riconoscono neppure i crimini che sono stati veramente commessi dai loro antenati. Terzo, i turchi possono giustificarsi sostenendo che si trattava di circostanze straordinarie: erano tempi di guerra, gli armeni si erano uniti ai russi contro i turchi, senza risparmio di atrocità nei loro confronti, tanto che il 20% della popolazione, nel suo complesso, morì di fame, di malattie o a causa dei combattimenti.
Pur rifiutando l’autodifesa come giustificazione, la gran parte dell’opinione pubblica mondiale propende per l’assoluzione degli ottomani dall’accusa di genocidio, quando più semplicemente questi avrebbero potuto essere condannati per omicidio, un crimine gravie ma di minore portata rispetto a un genocidio. Gli Stati Uniti e l’Occidente oggi hanno bisogno dei buoni uffici della Turchia in Iran, Iraq, Asia Centrale e altrove. Sarebbe sbagliato chiudere gli occhi se la Turchia si fosse realmente macchiata del genocidio degli armeni, ma perché rovinare relazioni tante delicate per una falsa accusa?
Allo stesso tempo, l’ingresso in Europa, l’obiettivo principale della politica estera turca, è a rischio. Gli europei oppongono resistenza per motivi religiosi, politici, economici e culturali. È chiaro che i turchi non potranno continuare a corteggiarli ancora per molto tempo e si trovano, a questo punto, di fronte a un bivio, tra la percezione che hanno di sé e il giudizio che hanno gli altri popoli.