Anche l’Albania apre al nucleare. E l’Italia?
10 Aprile 2008
di Dario Giardi
Certamente strumenti come i doppi vetri o i mulini a vento o i pannelli solari hanno una funzione e sono necessari in contesti specifici e per fini specifici, ma non sono sufficienti. Nel futuro di lungo andare ci sono due ipotesi, forse tra di loro non in alternativa: il solare o l’idrogeno. Ma tra lo stato di necessità attuale e l’eventuale futuro radioso c’è un intervallo, di medio periodo, colmabile solo con il nucleare. Di questa necessità anche l’Albania sembra aver preso atto.
L’Albania, in realtà, si è spinta anche oltre, ipotizzando un futuro da piccola potenza nucleare nei Balcani. La fame di energia di Tirana è in forte crescita: i progetti di industrializzazione del paese, in gran parte finanziati da istituzioni internazionali come Bei, Birs e Banca Mondiale, hanno necessità di energia e i black-out che si ripetono quasi ogni giorno stanno a dimostrare che il deficit energetico (che, a seconda della stagione, varia tra il 20 e il 50% della domanda) rischia di frenare lo sviluppo. Per questo, al primo posto nella scala di priorità del governo albanese c’è proprio la domanda di investimenti esteri nel settore dell’energia. L’idea è quella di recuperare il gap di oggi e in prospettiva diventare fornitore dei paesi balcanici («un mercato forte di 60 milioni di abitanti») e dei più vicini paesi europei come Grecia e Italia. Idea ambiziosa, forse troppo, ma che sta mobilitando progetti da tutto il mondo.
I primi passi per il progetto nucleare albanese sono stati avviati e si sono fatti avanti il colosso americano Westinghouse nonché la nostra Camuzzi. Le informazioni che girano nei circoli internazionali segnalano, in particolare, una disponibilità nell’altra sponda dell’Adriatico a costituire joint venture nucleari con l’Italia. Di sicuro, sull’Italia l’Albania punta molto per superare l’arretratezza in ogni settore, dall’energia al turismo, dalle telecomunicazioni alle infrastrutture. L’invito, pertanto, non può che essere rivolto soprattutto all’Italia, da sempre primo partner commerciale con il 71% dell’import e il 28% dell’export.
Lo stesso Tremonti ha ribadito recentemente come ci siano tutti i presupposti geopolitici affinché una tale soluzione abbia successo. Naturalmente il patto è che parte dell’aumento del Pil deve restare nei Paesi di origine. Questi avrebbero grandi difficoltà tecnologiche a creare le centrali, noi abbiamo il know how; in una logica di joint venture, inoltre, i tempi politici e amministrativi sarebbero ridotti. Già il know how. Molti di quelli che si ostinano a schierarsi contro il nucleare sottolineano come, pur volendo riconsiderare l’ipotesi nucleare, in Italia passerebbero anni dato che ormai il know how e la tecnologia si è quasi totalmente persa. Niente di più falso.
Le grandi aziende italiane del settore non solo non hanno perso il know how ma anzi l’hanno sviluppato essendo già parte attiva nei più grandi e autorevoli progetti di ricerca internazionale. Ed è proprio per questo motivo che appare doppiamente inutile l