Anche nello Yemen il vero ago della bilancia sarà l’esercito

Banner Occidentale
Banner Occidentale
Dona oggi

Fai una donazione!

Gli articoli dell’Occidentale sono liberi perché vogliamo che li leggano tante persone. Ma scriverli, verificarli e pubblicarli ha un costo. Se hai a cuore un’informazione approfondita e accurata puoi darci una mano facendo una libera donazione da sostenitore online. Più saranno le donazioni verso l’Occidentale, più reportage e commenti potremo pubblicare.

Anche nello Yemen il vero ago della bilancia sarà l’esercito

29 Aprile 2011

Quando la situazione sembrava dirigersi verso una conclusione auspicata da più parti – specie dalla comunità internazionale – nello Yemen si sono registrati nuovi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, con un bilancio complessivo di almeno nove vittime e un centinaio di feriti, molti dei quali in gravi condizioni.

L’episodio è avvenuto il 27 aprile, a Sana’a, la capitale, all’indomani dell’annuncio, da parte di un portavoce del presidente Saleh e dei maggiori leader dell’opposizione, dell’accordo raggiunto sul piano di transizione proposto il 21 aprile dal Consiglio di Cooperazione per gli Stati Arabi del Golfo (CCG), organizzazione molto attiva in questi mesi di forte instabilità regionale.

Il suddetto piano si svilupperebbe su un arco temporale di tre mesi: il presidente Saleh dovrebbe trasferire immediatamente i propri poteri al suo vice e avrebbe poi 30 giorni di tempo per rassegnare le dimissioni; tuttavia, prima della sua partenza, egli dovrebbe nominare i membri di un esecutivo di unità nazionale incaricato di governare, per il tempo necessario ad organizzare delle elezioni presidenziali (stimato in circa due mesi). Il piano prevede altresì che a Saleh, ai suoi più stretti collaboratori e ai suoi familiari, venga concessa l’immunità da ogni procedimento giudiziario. Proprio quest’ultimo punto ha fatto emergere un fatto fondamentale per comprendere pienamente le vicende yemenite: la grande distanza che separa le forze di opposizione dalla gente che scende quotidianamente in piazza per chiedere un governo meno corrotto e maggiori libertà.

Il Joint Meeting Parties – coalizione dei principali partiti di opposizione –, dopo un iniziale rifiuto del piano, ha dichiarato le proprie perplessità solamente per quel che riguarda il punto secondo cui dovrà essere lo stesso Saleh a dare vita a quel governo di unità nazionale che sarà chiamato a tenere le redini del paese sino a quando non sarà stato eletto un esecutivo legittimato dal consenso popolare. Qualcosa di più di un semplice dettaglio, ma comunque non un ostacolo tale da impedire la conclusione di un accordo che, dicevamo, è auspicato da più parti, in primis dalla comunità internazionale.

Lo Yemen è un paese estremamente povero e con istituzioni rese estremamente fragili dalla frammentarietà che caratterizza il proprio tessuto sociale. La presenza dei ribelli sciiti del gruppo al-Houthi, a nord, e quella dei separatisti del Movimento per la Mobilità Meridionale (SMM o Hirak), a sud, contribuisce a complicare un quadro già di per sé estremamente complicato. Il 90% delle esportazioni yemenite sono legate al settore petrolifero, da cui il governo trae circa il 75% delle proprie entrate, ma uno studio della Banca Mondiale ha affermato che le risorse termineranno nel 2017, assestando un gravissimo colpo alle finanze del paese e minandone la capacità di sostenere una popolazione che ha il maggiore tasso di natalità tra tutti i paesi del Medio Oriente.

Un tale scenario non può che scoraggiare chiunque intenda intervenire per riportare la pace ed una parvenza di stabilità, portando i principali attori della comunità internazionale a spingere piuttosto per un accordo tra governo e opposizione che sia in grado di mantenere in vita – seppur formalmente – le principali istituzioni governative e assicurando, allo stesso tempo, una certa continuità per quel che riguarda il contrasto al terrorismo – elemento questo, che ha permesso a Saleh di ottenere il sostegno, politico ed economico, di molti paesi esteri, Stati Uniti e Arabia Saudita in primis. Un accordo tra le parti rappresenterebbe, allo stato attuale, la migliore soluzione possibile al minor prezzo disponibile. Una tale ipotesi, quasi certamente, non si tradurrebbe in un rafforzamento dell’apparato statale yemenita, né tantomeno si ripercuoterebbe in maniera positiva sul livello di vita della popolazione. Al contrario, è probabile che ad uscire vincitori da questo clima di forte instabilità siano soprattutto i separatisti meridionali ed i ribelli sciiti, i quali potrebbero consolidare il controllo sulle province in cui la loro presenza è maggiormente radicata. Per quel che riguarda l’economia invece, i governi che si succederanno nei prossimi anni, non potranno prescindere da aiuti economici esteri, essendo al momento di difficile realizzazione una conversione, seppure parziale, dell’economia del paese.

Tutto sembrerebbe dunque deciso ed i morti degli ultimi scontri, altro non sarebbero che le vittime inevitabili di una difficile fase di transizione che potrebbe durare intere settimane, o forse anche mesi. Tuttavia, le rivolte che hanno infiammato, negli ultimi mesi, diversi paesi del Nord-Africa e del Medio Oriente, ci hanno impartito un’importante lezione che già la crisi economica aveva posto all’attenzione di esperti e analisti: non bisogna mai trascurare indizi e segnali – specie se di portata rilevante – per il solo fatto ch’essi ci portano dritti verso scenari drammatici che spesso si rifiuta anche solo di considerare. Già la crisi che, due anni or sono, ha colpito la quasi totalità delle economie mondiali, aveva posto all’attenzione di analisti ed esperti questo stesso elemento.

Quel che emerge da un’analisi delle vicende yemenite è l’assenza di una forza politica realmente rappresentativa dei bisogni e delle aspirazioni di una larga fascia della popolazione. Le forze di opposizione vengono considerate troppo vicine agli interessi del regime e per questo, accondiscendenti. Lo stesso Generale Ali Mohsen Ahmar, che per primo ha deciso di stare dalla parte dei rivoltosi, parrebbe spinto più da interessi personali che dal sincero desiderio di lottare per l’instaurazione di un governo più democratico. Negli ultimi anni, infatti, egli si è visto relegare sempre più ai margini dall’ascesa di quella che oggi viene definita la “nuova guardia”, costituita prevalentemente dai figli e dai nipoti del presidente Saleh, i quali si sono progressivamente impossessati delle principali cariche all’interno delle forze di sicurezza ed il cui principale esponente è certamente Ahmed Ali Saleh, capo della Guardia Repubblicana (un corpo di 30mila unità) e delle Forze per le Operazioni Speciali. Le manifestazioni popolari di questi mesi costituirebbero per il Generale Mohsen, l’occasione tanto attesa per imporsi nuovamente come protagonista della scena politica del paese, forte dei suoi legami con le autorità saudite.

Alla luce dei fatti, non è detto che un accordo tra governo e opposizione si traduca automaticamente nel ristabilimento della pace e che porti ad una cessazione immediata dei disordini di queste settimane. È molto probabile che la popolazione continui a manifestare, anche se priva di quei collegamenti a livello politico che le permetterebbero di rappresentare una minaccia credibile per il regime. In tal caso, il numero di morti continuerebbe ad aumentare e ci vorrebbe del tempo prima che l’impeto rivoluzionario degli yemeniti si esaurisca. Tuttavia, qualora il governo dovesse reprimere con maggiore violenza i disordini che, con tutta probabilità, si verificheranno nei prossimi giorni, è possibile che le forze di opposizione, alcune delle principali tribù del paese e parte delle forze armate decidano di rompere l’accordo stipulato con Saleh, evitando così di compromettersi definitivamente agli occhi della popolazione. In tal modo, queste forze otterrebbero una parziale riabilitazione e potrebbero proporsi per guidare il paese negli anni a venire, a prezzo però, di un sanguinoso conflitto civile che le vedrebbe opposte all’élite politico-economica che oggi detiene il potere.

Al momento la situazione resta estremamente fluida e molto dipenderà da quel che accadrà nei prossimi giorni, oltre che dalla capacità degli attori in campo di influenzare la direzione degli eventi. Il presidente Saleh appare abbastanza forte da poter determinare le condizioni del proprio ritiro e assicurare ai suoi più stretti collaboratori una notevole influenza sulle vicende future del paese. L’opposizione, da par suo, sembra interessata più a conquistare un maggior peso politico, che a determinare un vero e proprio mutamento di regime. La piazza, al momento, è decisa a resistere, ma non si ancora per quanto, né a quale prezzo sarà disposta a farlo.