Anche questa volta il G20 ha mostrato tutta la sua inutilità

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Anche questa volta il G20 ha mostrato tutta la sua inutilità

12 Novembre 2010

Anche questa volta, il G20 ha mostrato tutta la sua inutilità. Quello di Seoul doveva essere l’appuntamento più importante per il gruppo dei Venti, che dovevano ratificare le decisioni di vigilanza prudenziale sulla stabilità finanziaria globale. Invece, si è parlato quasi solamente degli squilibri monetari, senza arrivare a una soluzione. Il presidente americano Barack Obama sorride, al termine dei lavori, ma il vero vincitore rimane il cinese Hu Jintao. Per ora, nessuna decisione ufficiale sul cambio fra renminbi e dollaro. E intanto, la crisi europea dei debiti sovrani continua a correre grazie all’Irlanda.

Alla vigilia dei lavori coreani, negli ambienti finanziari c’era un diffuso pessimismo. Paul Donovan, managing director di Ubs, aveva proposto apertamente di abolire il G20. «È solamente un inutile e costoso carrozzone, che serve a far visitare nuove città ai governanti mondiali», ha scritto Donovan. E non aveva torto. Ma proviamo a trarre le somme di come sono arrivati i Paesi a Seoul e cosa hanno ottenuto.

Dai derivati alle valute, il tema principale del summit è mutato nel corso degli ultimi tre mesi. In giugno e luglio, infatti, si era programmato di discutere della riforma dei derivati finanziari. Seoul doveva essere il punto finale di un percorso iniziato da Mario Draghi, presidente del Financial Stability Board e governatore della Banca d’Italia. Germania e Francia, ma anche Italia, grazie al ministro dell’Economia Giulio Tremonti, hanno esercitato pressioni affinché l’ordine del giorno contemplasse anche i derivati, ma non c’è stato spazio.

Ma se l’Europa piange, gli Stati Uniti non ridono. Obama è giunto a Seoul con la certezza di risolvere, tramite l’ampiezza mediatica del meeting, gli squilibri valutari attualmente in corso fra la divisa cinese e il dollaro statunitense. Tutta la battaglia è stata però ricondotta a un mero scontro fra nazioni con surplus (i mercati emergenti) e disavanzi commerciali (i mercati sviluppati). La conseguenza è stata un rimando alle decisioni bilaterali. In altre parole, la soluzione prevista dal G20 è che Cina e Usa devono accordarsi autonomamente per evitare svalutazioni competitive della moneta cinese. Per Obama oltre al danno, è arrivata la beffa. L’America è infatti stata accusata da quasi tutti i membri del meeting per via del Quantitative easing 2, la seconda manovra di acquisto di titoli di Stato Usa da parte della Federal Reserve. Il compito, nelle intenzioni della Fed, è quello di stimolare l’economia, ma la Cina ha attaccato Obama di alimentare rischi sistemici e azzardo morale.

C’è poi l’Italia. Oltre a Draghi e Tremonti, in Corea era presente anche il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Dopo aver discusso di rischi sistemici, soprattutto dopo la recente escalation di timori sull’Irlanda, Roma ha cercato nuovamente di porre l’attenzione sulla fragile ripresa economica. Ma non solo. La speculazione è stata uno dei punti più a cuore dell’Italia. La proposta di Berlusconi di «vietare i contratti futures sulle commodities» è stata recepita, ma non la discussione non è andata oltre al confronto verbale. Infine, il gruppo italiano ha sottolineato la necessità di limitare l’espansione della disoccupazione, dopo l’ulteriore impennata avvenuta negli ultimi mesi. Poi, proprio in chiusura dell’appuntamento, il giallo. Berlusconi ha lasciato la sala stampa prima della conferenza coi giornalisti, unico fra tutti i leader mondiali. Probabile che l’intenzione fosse quella di evitare domande sull’attuale crisi politica.

Alla luce dei lavori, il documento finale del summit non deve stupire per incompletezza. Il G20 ricorda come «la crescita economica sia fragile e disomogenea», ma anche come «la disoccupazione deve essere combattuta con ogni modo possibile». Certo, il G20 ha varato un piano di cinque punti che dovrebbero preservare la ripresa economica. Dal commercio internazionale al risanamento di bilancio, passando per le dinamiche del mercato del lavoro, la finalità dei cinque punti è quella di non permettere una ricaduta nella recessione. Ma l’impressione generale è che non ci sia realmente qualcosa di innovativo nella produzione finale del G20.

Mentre a Seoul si discuteva di guerre valutarie, o presunte tali, in Europa si guardava con timore alla crisi irlandese. Un eco, quello di Dublino, arrivato come un tuono anche in Corea. Colpa dell’esposizione che le banche irlandesi hanno nei confronti dei crediti deteriorati. Il gruppo dei Venti ha però quasi ignorato il rischio di default sovrano di Dublino, ben più elevato di quello della Grecia. Solo un laconico rimando a una «maggior vigilanza sui correnti disavanzi di bilancio». Troppo poco, specialmente guardando al deficit del 32 per cento del Pil che farà registrare quest’anno Dublino.