Anche se non l’amate rassegnatevi. Sarah Palin riserva altre sorprese

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Anche se non l’amate rassegnatevi. Sarah Palin riserva altre sorprese

Anche se non l’amate rassegnatevi. Sarah Palin riserva altre sorprese

02 Giugno 2010

Parlare di sé per iscritto senza essere Fëdor M. Dostoevskij (1821-1881) è da pusillanimi, ma diventa persin molesto se si ha un minimo di visibilità pubblica, tipo quella che, comunque, tocca a chi svolge la professione giornalistica. Accennerò allora al sottoscritto solo nella misura in cui la rievocazione di alcuni fatti concreti serve a dare il la a considerazione ben maggiori.

Quando l’allora governatrice dell’Alaska, Sarah Palin, venne scelta come running-mate, era l’estate del 2008, dal senatore dell’Arizona John McCain, candidato del Partito Repubblicano alla Casa Bianca, fui tra chi ne scrisse subito entusiasticamente su qualche organo nostrano d’informazione e di approfondimento culturale (beninteso, il “lancio” della candidatura della Palin spetta comunque a Il Foglio, che batté tutti in breccia mesi prima). Me ne incolse una gragnola di epiteti, critiche, derisioni.

Mi si attribuirono “profezie” sul successo elettorale di Sarah che mai avevo fatto e mi si è descritto come un “vedovo” inconsolabile dopo la sconfitta subita dal ticket McCain-Palin a opera di Barack Hussein Obama (ah sì, e di Joseph Robinette “Joe” Biden jr., ma non se lo ricorda nessuno….). Cose che capitano, chisseneimporta. La questione fondamentale invece è che gran parte di quella stampa italiana che ha descritto la prode Sarah come una fanatica religiosa, una parafascista guerrafondaia, una talebana dell’antiabortismo, una ignorante assurta alle cronache nazionali solo per qualche concorso di bellezza vinto in gioventù farebbe meglio a mettersi a studiare. Per esempio a studiare il complesso e affascinante sistema della comunicazione politica statunitense, marketing compreso, poi la sociologia di quel fenomeno, il conservatorismo, che è ben lungi oramai dall’essere solo una delle opzioni politiche americane, quindi la storia del Paese più citato e meno davvero conosciuto del mondo (sì, esattamente gli Stati Uniti d’America) e magari anche alla fine qualche tabella elettorale comparata. Se lo facesse, infatti, quel mondo parvenu smetterebbe immediatamente di ridire.

Facciamo i conti con il passato. Nel 2008 McCain, che certo non era un Repubblicano amatissimo dai Repubblicani (establishment di partito ed elettori), sudava le classiche sette camice per farsi accettare dal mondo conservatore (che, ribadiamolo, non è automaticamente sovrapponibile all’elettorato Repubblicano). McCain avrebbe perso più clamorosamente di quanto di fatto perse se non fosse corso ai ripari, e questo soprattutto per l’abbandono del campo Repubblicano da parte di moltissimi conservatori. La Palin è stata lo stratagemma più astuto che i Repubblicani abbiano potuto escogitare, in un anno elettorale da incubo e forse segnato sin dall’inizio, per salvare il salvabile, cioè coprire il fianco destro. Senza la Palin McCain avrebbe perduto ancora più rovinosamente, non riuscendo cioè a mantenere legato al partito anche quel numero comunque sostanzioso di conservatori che hanno deciso una volta in più di concedere il voto turandosi il naso solo in virtù proprio di Sarah, considerata un elemento moderatore delle pulsioni non-conservatrici di McCain. E questo soprattutto perché, nonostante, quel che molti pensino, la proposta politica di Sarah Palin (sui princìpi non negoziabili, in tema di difesa, sulla sicurezza nazionale, sul fisco, sulla misura dello Stato) è allineata perfettamente alla cultura conservatrice, ma soprattutto è ciò che di fatto pensa un numero sempre crescente di statunitensi.

Per esempio il popolo dei “Tea Party”, che certamente configura un fenomeno di tipo conservatore o forse soprattutto antiobamiano, ma che pure mostra e dimostra un’anima ben trasversale. E, per finire, prima cioè di passare all’attualità, risibile davvero è stato chi allora, altro che Sarah, descrisse la Palin come un candidato debole e poco avvezzo ai grandi temi di cui consta la politica presidenziale. Ci si dimentica troppo facilmente, infatti, che uno dei trampolini di lancio per chiunque punti alla Casa Bianca (non vincolanti ma assolutamente importanti nella sostanza) è l’essersi fatto le ossa alla guida di uno degli Stati dell’Unione federale (giacché quella carica allena a responsabilità di governo autentiche); e quindi ci si scorda velocemente che alle elezioni del 2008 McCain corse da senatore mai stato governatore, Obama pure da senatore, e per di più oscuro, dell’Illinois senza mai avere assunto incarichi di rilievo e persino Hillary Clinton da (formalmente) solo senatrice dello Stato di New York (anche se di fatto aveva gà co-governato gli USA assieme al marito), laddove l’unica titolare del governo di uno Stato, impegnativo e difficile come lo sono diversamente ma analogamente tutti, fu proprio Sarah Palin, lassù dalla sua Alaska non natia ma di eletta adozione. Del resto, riguardiamo le cifre, il ticket McCain-Palin ottenne comunque un numero di voti che ne avrebbero decretato la vittoria contro gli avversari Democratici, già battuti da George W. Bush jr., nel 2004, ovvero John Forbes Kerry e Johnny Reid “John” Edwards.

Ora l’attualità. Chi ha pensato che la sconfitta di Mc Cain nel 2008 significasse la scomparsa del mondo conservatore mostra di non avere mai aperto una singola pagina di storia di quel mondo. L’affermazione “rapida” e capillare dei “Tea Party” è infatti il segno più eloquente di un mondo che sa contrarsi e distendersi a seconda delle necessità tattiche, e che lo fa strategicamente in base a una logica di azione e di reazione davvero efficace, anzitutto giacché è sempre e comunque capace di condizionare il mondo della politica.

Chi ha inoltre pensato che la Palin si fosse rintanata in qualche angolo del mondo a vergognarsi di se stessa dovrebbe rivedere le proprie priorità. A mesi di distanza è chiarissimo invece il contrario. Il 2008 è servito all’ex governatrice dell’Alaska per comunicarsi al pubblico, per “vendersi” al meglio, insomma per preparare l’offensiva maggiore. Una dopo l’altra, le sue mosse sono cioè state da manuale. La Palin è infatti riuscita, nonostante tutto, a conservare la propria imamgine d’indipendenza rispetto al Partito Repubblicano amato-odiato dai conservatori (e diciamo pure che qui McCain le ha reso facile il gioco), è riuscita a restare sulla cresta dell’onda conservatrice, ha lasciato che stampa e avversari se ne spartissero le vesti indossando ottimamente i panni della vittima che non reagisce (alias che non reagisce subito), ha lasciato che la responsabilità della sconfitta del 2008 cadesse tutta su McCain, si è dimessa dall’ingombrante guida dell’Alaska in tempo per imboccare strade più importanti, ha sbugiardato, dati alla mano (la vendetta è sempre un piatto che si gusta freddo), le malelingue le quali già le avevano celebrato il funerale politico, e questo soprattutto pubblicando a effetto e a orologeria, in novembre, un libro che da noi pochi hanno sfogliato (e che invece andrebbe tradotto come saggio di strategia comunicativo/politica da Nobel, capace, da solo, di spiegare le dinamiche che da oltre un sessantennio disegnano la curva in ascesa della Destra USA), Going Rogue: An American Life (Harper and Zondervan, Grand Rapids [Michigan), e, appena le hanno offerto la tribuna maggiore, l’ha salita abbracciando il “Tea Party” con un trasporto che ha pochi pari, quadrando il cerchio della sua politicissima antipoliticità.

Oggi, sotto più di un sole, le epifanie di quel movimento assolutamente trasversale destra/sinistra ma pure frammisto di conservatori e di libertarian, viene sempre più insistentemente, nell’immaginario comune, sovrapposto al nome e al grazioso visetto di Sarah Palin. Scommettiamo (queste volta sì) che codesta donna con la gonna ci riserva qualche altra sorpresa?

Marco Respinti è il Direttore del Centro Studi Russell Kirk