Anche una parte della sinistra sa che il mercato del lavoro così com’è è iniquo

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Anche una parte della sinistra sa che il mercato del lavoro così com’è è iniquo

05 Marzo 2012

Un recente saggio della collana Arel-Il Mulino (Giovani senza futuro? Proposte per una nuova politica) a cura di due importanti studiosi di uno dei think thank  vicini al  Pd, come Carlo Dell’Aringa e Tiziano Treu, tra i differenti  aspetti interessanti, contribuisce con obbiettività a ristabilire alcuni elementi di verità tra i tanti luoghi comuni presenti nel dibattito sulla riforma del mercato del lavoro.

Prima ancora di commentare alcune parti del saggio (vi sono raccolti gli scritti di diversi autori) è in caso di svolgere alcune considerazioni sull’andamento del negoziato in corso che sembra aver smarrito il bandolo della matassa, oscillando di volta in volta verso la prospettiva annunciata di cambiamenti epocali per regredire, poi, a livello di promesse <a babbo morto> a causa della mancanza di risorse. Ma ciò che più preoccupa è un altro profilo del negoziato: ammesso che giunga in porto che cosa avverrà al mercato del lavoro? Vi sarà complessivamente più flessibilità o si determinerà un maggiore rigidità?

Il confronto con le parti sociali presenta degli aspetti di ambiguità e di rischio che vanno denunciati. Il mercato del lavoro soffre sicuramente di un dualismo iniquo: tutta la flessibilità necessaria a garantire un minimo di efficienza del sistema produttivo grava sulle giovani generazioni, nel senso che i datori si avvalgono, in caso di assunzione, di tutti gli strumenti contrattuali a disposizione, allo scopo di sottrarsi, al momento della risoluzione del rapporto, di una disciplina troppo rigida in materia di licenziamento, aggravata dagli oneri derivanti da un contenzioso giudiziario troppo lungo e di esito imprevedibile. Tale situazione, però, può essere modificata ad una precisa condizione: che si arrivi ad una riforma equilibrata dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. In caso contrario, se prevalessero le posizioni dei sindacati (quanto meno della Cgil che da sola condiziona tutto il quadro politico) il risultato non sarebbe quello di un mercato del lavoro complessivamente meno rigido ma più giusto; si determinerebbe, invece, una ulteriore ingessatura, con ricadute negative sulle imprese e sulla stessa occupazione, perché, fino a prova contraria, nessun datore può essere costretto ad assumere secondo regole da lui ritenute proibitive.

Potrà non piacere, ma oggi le imprese – per le quali vale la regola del primum vivere – sono in grado di eludere l’eccessiva rigidità in uscita dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, avvalendosi di una forma consentita di flessibilità in entrata. Se questa <entrata di sicurezza> dovesse chiudersi il sistema nel suo complesso non ne avrebbe un beneficio. Sul tavolo del negoziato circolano troppi veti, si reclamano troppe regolamentazioni, si mettono troppi limiti a proposito di rapporti di lavoro pensati e disciplinati in ragione di situazioni lavorative specifiche che non possono essere ricondotte forzatamente alla regola " facilona" del contratto unico. Se vi sono delle irregolarità esse vanno contrastate in quanto tali. Ma l’avere a disposizione una pluralità di rapporti è anche la condizione per assecondare quella complessità  del mercato del lavoro che è coerente con l’attuale organizzazione economica delle imprese.

I "cattivi maestri" teorizzano che la precarietà è l’emergenza del Paese. Dimenticano che il nostro primato negativo si chiama disoccupazione. E a questo punto torniamo al saggio dell’Arel, dove, proprio nell’introduzione a loro firma i due curatori riconoscono gli effetti determinati da una legislazione del lavoro più flessibile (dal pacchetto Treu alla legge Biagi). <Prendendo a riferimento – è scritto a pag. 5 – i giovani di età compresa tra i 15 e 29 anni, tra il 2000 e il 2007 il tasso di occupazione scende dal 23,9% al 14,5%, una riduzione di quasi dieci punti che rappresenta un vero record positivo tra i principali paesi europei, dove la disoccupazione giovanile si è mediamente ridotta, nello stesso periodo di tempo, di meno di due punti percentuali”. Nello stesso arco di tempo, anche i Neet (i giovani con non studiano, non hanno un lavoro e non lo cercano) passarono dal 21,8%  al 18,9%.

Secondo gli autori, è proprio l’elevato numero dei Neet – nella media degli altri paesi esso è inferiore di un terzo – a segnalare le forti difficoltà dei giovani ad entrare nel mercato del lavoro. Tale handicap, al di là degli aspetti relativi alle congiunture economiche, dipende anche da taluni elementi di carattere strutturale che mettono in luce due primati negativi del mercato del lavoro dei giovani italiani. Uno è relativo alla percentuale di giovani Neet senza titolo di scuola superiore, i quali, ad una preparazione insufficiente sommano la mancanza di lavoro e, quindi, la difficoltà nel costruirsi una condizione di occupabilità. In Italia questi giovani rappresentano poco meno del 20% della popolazione  fino a 29 anni, mentre la media europea si attesta su valori pari alla metà. L’altro dato sta nel fatto che, da noi, è praticamente sconosciuta ogni forma di alternanza tra scuola e lavoro, nel senso che – a fronte di una media europea del 25%  e del 30% nell’Ocse – risulta che meno del 5% dei nostri giovani ha compiuto un’esperienza lavorativa, anche breve, durante gli studi. Peraltro più i giovani invecchiano, maggiore diventa il tempo in cui rimangono al di fuori dello stato di occupazione. A 20 anni è circa di un anno, a trent’anni di oltre un triennio.