Andavano a Sud

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Andavano a Sud

03 Maggio 2009

Trevor puntò il binocolo verso il lontanissimo schermo gigante. Le macchine da proiezione dovevano essere fuori fase, perché si mescolavano scene di molti film: Grace Kelly correva su una cabriolet color panna inseguita da King Kong che saltava da un grattacielo all’altro, mentre Fred Astaire si stringeva al petto un Totò rigido e impettito, vestito da militare, e accennava un passo di milonga. Intanto uno stormo di B52 volava compatto verso il Giappone mescolandosi a una mandria di bufali e ad alcuni ghepardi contro il rosso di un tramonto africano. Era tutto un po’ confuso, ma suggestivo. Quando vide un aereo entrare nell’occhio storto di Totò, Trevor abbassò il binocolo e l’appoggiò sul sedile. Udì un rombo sommesso, e accanto alla sua vecchia Ford venne a fermarsi una limousine tutta ammaccata con i copertoni bicolori. Il vetro si abbassò e Trevor riconobbe il rappresentante di articoli sanitari. Dietro di lui la nana e un vecchio demoralizzato.
– Come va, Mullaly? – chiese con un sospiro. In lontananza, un miglio oltre le carcasse delle macchine bruciate, lo schermo baluginava nel suo disperato groviglio di storie.
– Oggi siamo sfuggiti per un pelo a un’imboscata sulla statale 54. Un gruppo di migranti ci aveva sentito venire e ci ha accolto a sassate. Qui è tutto tranquillo, pare…
– Di questi tempi nessuno ha voglia di vedersi un film, i drive-in sono poco frequentati… Come ha fatto a procurarsi la benzina?
Mullaly scoprì una fila di denti radi e fece un gesto elusivo.
– Ho adattato una pompa da spurgo… Nei serbatoi a volte ne rimane una goccia. Il massimo è quando si trova un distributore incendiato: in fondo al pozzo ce n’è sempre qualche gallone… Ma bisogna stare attenti, i migranti fanno la guardia. Tre giorni fa abbiamo visto un gruppo dar fuoco a una macchina vicino a un motel, dentro c’era una coppia che si contorceva e picchiava sui vetri, li avevano chiusi a chiave… Guardava un film?
– Almeno una decina. Secoli che non vedevo una pellicola.
Il cielo della notte era rosso per il bagliore degli incendi ad Alamogordo. All’orizzonte sorgeva lentamente la sagoma butterata e mostruosa di Tirteo. Mullaly scese dalla limousine e si avvicinò a Trevor. Aveva il viso gonfio e ammaccato, i capelli lunghi, la camicia lacera. Ma portava una cravatta a fiori: alla forma ci teneva ancora, nonostante la situazione.
– Mi dica… è sempre convinto che si debba andare a sud? Fa sempre più caldo. Il buon senso direbbe di andare a nord.
– Ci vada, – disse Trevor senza guardarlo.
– No. Credo che abbia ragione Lei, anche se non capisco perché.
Intanto anche la nana si era avvicinata e li guardava con quegli occhi sporgenti nel viso rincagnato da bulldog pacioso.
– Fa ancora quei sogni? – il rappresentante si era chinato e gli parlava attraverso il finestrino. Trevor sentiva il suo odore, un lezzo acre di sporco, di sudore, di paura. Non rispose. Fissava ostinato lo schermo lontanissimo. La nana allungò il moncherino e gli toccò il braccio con quella carne morbida, calda e liscia come una mucosa. Trevor provò un brivido di disgusto e di piacere insieme. Il rappresentante spinse via la donna.
– Va’ in macchina, va’. E preparati. Vengo subito.
E a Trevor:
– E’ una fortuna averla trovata. E poi mangia poco… Crede che quella cosa cadrà davvero sulla terra?
Trevor si strinse nelle spalle.
– Hanno sbagliato quando ci hanno detto che non c’era nessun pericolo, potrebbero sbagliarsi anche adesso.
– Nessun pericolo! E questa siccità? Ha già fatto abbastanza danni, quel coso, – e guardò con odio rassegnato la massa livida di Tirteo che incombeva sul deserto. Il sole appena tramontato l’illuminava di striscio e si distinguevano i crateri e le fenditure della superficie petrigna.
– Per fortuna c’è ancora l’elettricità, – continuò Mullaly aggiustandosi la cravatta, – i pannelli orbitali funzionano sempre… e arrivano anche le bollette, sa? E’ incredibile: arrivano le bollette e gli importi vengono addebitati su conti e carte di credito che non esistono più… E’ incredibile!
– Chi è quel tipo? – chiese Trevor indicando la limousine. Il rappresentante si girò a guardare il vecchio, che se ne stava seduto sul sedile posteriore e non si era mosso.
– Mio padre, – disse Mullaly e abbassò il volto come per vergogna. – Non potevo abbandonarlo. Sua moglie l’ha piantato due mesi prima dell’annuncio, se n’è andata con un jazzista integrale di passaggio. Lui è come se avesse avuto una legnata in testa. Non parla mai, per fortuna ogni tanto se la fa con la nana.
Trevor prese il binocolo e lo puntò sullo schermo. Alec Guinness sonava il flauto tra le poppe ignude di Jane Mansfield, che aveva in mano un piccolo Boris Karloff vestito da Frankenstein, con la giacca corta e le scarpe di piombo e le suture sulla fronte e tutto. Trevor ebbe un conato di vomito e mise giù il binocolo.
– Che cosa contate di fare?
Il rappresentante lo guardò stupito:
– Che cosa dovremmo fare? Andiamo a sud. Evitando le autostrade, prendendo per le strade secondarie, per i viottoli, per il deserto. Il problema sono le ruote di scorta, io ne ho cinque, ma tutti quei crepacci e i sassi… Perché, che cosa dovremmo fare? I migranti hanno distrutto le città, i supermercati, tutto, sono rimasti solo i cartelloni pubblicitari a cucinarsi al sole… Però credo che il peggio ormai sia passato, andando a sud non dovremmo più incontrare tanta gente…
Dalla limousine venivano adesso gemiti soffocati e i risolini della nana, come guaiti. Il rappresentante fece finta di niente.
– Perché non viene con noi? Nella macchina c’è posto anche per Lei. Ci potremmo difendere meglio.
– No, – disse Trevor con svogliatezza, – gliel’ho già detto la settimana scorsa a Socorro, preferisco viaggiare da solo… E poi ho le fotografie, le fotografie lì non ci stanno.
Il vecchio doveva aver finito, perché dalla limousine veniva solo la voce della nana, che si cantava sottovoce una canzone, oh, the old good days… Intorno si udivano gli scricchiolii di tutti quei rottami che si raffreddavano dopo la vampa del giorno.
– Quali fotografie? – chiese il rappresentante senza interesse.
– Le mie fotografie. Io sono un fotografo. Cioè ero un chimico, ma ero anche un fotografo. Ho fatto migliaia, decine di migliaia di fotografie. E me le porto tutte dietro. Tutte… Se vuole, domani gliene faccio vedere qualcuna.
– Domani, sì, magari… Qualcuna.
Il rappresentante tornò alla sua macchina, mise in moto e si allontanò di una decina di metri. Trevor reclinò il sedile, bloccò le porte e si sdraiò per dormire. Pensò con desiderio lancinante all’acqua tepida, a una doccia. Farsi la doccia, pensò, uno che si fa una doccia, io che mi faccio una doccia, adesso vado a farmi una doccia, ho voglia di farmi una doccia, quasi quasi mi faccio una doccia… Poi aprì gli occhi e attraverso il parabrezza vide Tirteo. L’orrore.

*  *  *

– Oh, le Furie… hai sentito il rumore delle loro ali, di notte?

un bisbiglio che va e che viene, murmure concitato che rivela segreti e propone misteri, un’ignota attività sessuale tra creature esotiche sotto il riflesso di un’incipiente primavera che da lontane colline offre allo sguardo il rovescio devastato della creazione:: la precisione dell’ora della morte ricorda la contemporaneità favolosa degli sconosciuti, dei popoli sottomessi, delle sterminate colonie marine (S. Thala), dei baluardi sugli oceani siluriani, dei cieli futuri o già morti:: la trasformazione delle foreste in circuiti stampati, delle scimmie antropomorfe in automi, delle passioni in campi elettromagnetici:: inquietudini più sconfortanti dei loro prototipi:: una spossatezza estenuata davanti a quelle distese di case e di facciate, quella gonfia monotonia di selciati, di commerci su commerci, davanti a questo crescere del mondo dentro di sé e sopra di sé, come una propaggine ammiccante e pustolosa (una vertigine, un’accettazione disperata e ferma):: il grande edificio bianco, in fondo a tutto, come il punto indicato con ostinazione dall’ago di una bussola rovesciata, al quale ci si (può) avvicina(re) senza mai raggiungerlo (come alla colonia di Punta Marina), un punto corrugato – una singolarità essenziale – un odore di fiammiferi e petrolio – linee di forza convergenti verso il cuore o il polo:: e poi:: le città incenerite; gli incendi moltiplicati dentro; una catena d’incatenamenti; il mare la sabbia i bunker; le stazioni di servizio (arse bombardate devastate); le autostrade erbose gli eliporti abbandonati i moli crepati i serbatoi esplosi le torri scheletrite le ferrovie corrose il ponte altissimo un deserto ai margini di qualcosa (forse una vastità):: i magazzeni, i depositi, le cantine, le volte annonarie, i sotterranei sterminati dove si accumulano:: olio farina grano sale acqua birra (il corteggiamento degli oceani non è sufficiente, forse):: manca solo il nome della città (S. Thala, o equivalente, purché alto, azzurro, a strapiombo, ma delicato e allusivo:: S. Thala è un luogo, ma è anche tutti i luoghi, un luogo che si circonda da ogni parte, inclinato verso sud), ma nella città c’è tutto (i roghi sacrificali, gli strumenti della tortura, i canti tribali, i balli morti, i tornei, gli omicidi, le placente appese, di nuovo la città), e – di notte – i sogni ((di solito a quest’ora, di solito in qualche drive-in, di solito dentro la macchina, di solito: come ogni notte, per Trevor)):: le chiatte, le foci, le ciminiere, le statue, le fontane (ma tutto disseccato, color sabbia, sovraesposto, corroso dalla macchia cieca, occhio innestato direttamente sul cervello (per quel bagliore stampato, indelebile) e intanto:: ciuffi di tamerici sulla riva sabbiosa di un mare, qualche vela dimenticata all’orizzonte, odori vari, specie salsi, colori già sontuosi, ora sbiaditi ma memoriosi, il suono delle sirene), le pozze iridate per mescolamenti tracimazioni spandimenti oleosi, le cisterne (alcune conservano un sapore acquifero, ma evanescono subito):: potrebbe essere davvero la fine del mondo (qui, con questo nome, queste genti che vorrebbero fuggire ma girano in tondo e lì dentro vengono partoriti altri bambini, sempre (l’urlo delle partorienti riempie il cielo, cerca di uscire dal mondo per portare messaggi – ma le mura sono impenetrabili)):: che cosa c’è dietro le mura di S. Thala:: conoscenza amore servizio – e poi godimento (nell’altra vita):: adesso dopo aver fatto tutti quei bambini si sono pentite, glieli hanno presi (o glieli prenderanno) e li sacrificheranno a creature alate, inconoscibili, non ancora venute (si può anche pensare a un cubo di rame alto sei piani, forse ospedale forse carcere, che appare (come) uscito da (sopravvissuto a) una lenta lunghissima combustione (non tutti sanno che in una stanza di questo cubo (un ufficio piuttosto) il direttore si era chiuso ogni sera per vent’anni mettendosi in bocca la canna di una pistola carica e poi scoppiando in singhiozzi)):: ma penseremo ancora a queste cose quando Tirteo, perché di sicuro Tirteo, come avverrà (nei particolari) la cosa (e se fosse un coito galattico, se la Terra avesse aspettato negli eoni il suo amante per stringerlo a sé nel convulso della voluttà:: come potremmo noi impetrare salvezza, a che servirebbero i nostri glauchi occhi trapunti di lacrime bataviche, l’ansito del nostro terrore caoagulato, tutte le foto che ho accumulato per segnare una storia (ipotetica) del mondo, illuminata da una luce nettuniana (qui sfumare)):: quei gabbiani che volano sopra S. Thala, eccoli i predoni del mare, in un lontano assedio mai compiuto, oppure mai cominciato, che prelude alla carne, alla pelle, alle ossa, al corpo dei morti ghiacciati o evaporati per quel bagliore che non se ne va (gli venne un attimo alla mente, o alle nari, il profumo rimastogli sulle mani dopo aver massaggiato le spalle, la schiena, la nuca di Rita, ma fu solo un attimo, perché poi il sogno riprese, con una fuga di elitre sciamanti nella solitudine cosmica (di un nero vellutato e incarnito, come la profondità femminile): la conclusione, dunque, è una sola, indimostrabile ma incontrovertibile. Bisogna andare a sud

* * *

Ancora quei sogni… Qualcosa di acceso, chiazze di luce, barbagli, un andare e venire di piccoli aghi che gli cucivano le palpebre strette per non svegliarsi del tutto, gnomi lucenti, rossoaranciati, scivolanti per piani sdruccioli sui fianchi di una collina. Trevor strizzò ancora di più le palpebre, un tendersi e allentarsi di luce e di ombra, un piccolo tormento. Non si decideva ad aprire gli occhi, si crogiolava nello spasimo alterno, ondulante, cominciavano i rumori del giorno, schiocchi e fruscii dai rottami ammassati che il sole arroventava, mentre gli aghi rossosangue trapassavano spessi strati di luce-buio per pungergli le palpebre tremolanti nel colare di piccole lacrime calde bollenti che gli aderivano alle guance. Infine aprì gli occhi, solo una fessura, e riprese un primo contatto, cauto, col mondo, o meglio con qualcosa che oscillava davanti al suo viso, oscurandogli a tratti i raggi del sole, e quel vicendevole abbagliamento gli procurava uno stordimento fiacco, ipnotico. Si rese conto di essere ancora sdraiato sul sedile: sbatté le palpebre, attraverso le lacrime vide l’immagine confusa e tremolante di un volto largo e piatto, un sorriso sgangherato, due occhietti ammiccanti: la nana moveva la testa avanti e indietro, frapponendosi a ritmo tra lui e il sole, e Trevor doveva ogni volta chiudere gli occhi per non restare abbagliato. Chissà come era riuscita ad abbassare il vetro del finestrino, o forse l’aveva aperto lui, di notte, per respirare meglio. Girò la testa dall’altra parte, ancora sopraffatto dai sogni. La nana allungò il braccino monco e gli carezzò il viso con quella pelle liscia e delicata, cicatriziale, e lui provò ancora quel brivido di piacere e di ribrezzo. Poi sentì la bocca umida di lei carezzargli il collo e le guance, la mano che s’insinuava sotto la camicia e cercava la strada fra i peli sudati, sempre più giù, mentre il moncherino gli solleticava le labbra. Lasciò fare, vinto da un languore inspiegabile, con gli occhi chiusi, come una vittima che nel momento supremo scopra la voluttà insospettabile e vergognosa del sacrificio.
– Ehi, Connie, brutta cagna, che fai?
L’urlo di Mullaly risonò nello stupore del mattino, e la ragazza scappò di corsa, sgambettando coi polpacci corti e grossi che uscivano dai pantaloncini stracciati. Trevor restò sdraiato, incapace di muoversi, di parlare, in preda a una spossatezza sconosciuta.
– Le ha dato fastidio? – chiese il rappresentante, ma il suo tono era di accusa. La barba lunga e la cravatta lenta gli davano un’aria trasandata. Cercava di conservare un minimo di dignità, ma si vedeva che si stava lasciando andare.
– Lasci perdere, non è niente, – mormorò Trevor, e con uno sforzo sollevò il sedile. Uscì dalla macchina e si guardò intorno. Il drive-in era ingombro di carcasse affumicate e contorte di automobili. Lontano, contro il sole, si stagliava il rettangolo bianco dello schermo. Più in là, tra le caligini, spuntavano le cime di argentei grattacieli. Gli dispiacque di non aver fatto nessuna foto col teleobiettivo, la sera prima. Non aveva nessuna immagine di Totò o della Mansfield nuda.
– Allora? Viene con noi? – insisté Mullaly senza convinzione.
– No, non credo… Se vuole le mostro le foto. Qualche foto.
– Magari, qualcuna… Non abbiamo molto tempo. L’Amazzonia è lontana, e quell’asteroide corre a rotta di collo, – e guardò il cielo. Ma Tirteo era tramontato e l’orizzonte era sgombro, come due anni prima, come sempre prima. Prima che quella sciagura si avvicinasse alla terra.
Trevor aprì il bagagliaio e ne tirò fuori due enormi valigie.
– Le faccio vedere la collezione "traumi".
Trasportò una delle valigie sul sedile posteriore, l’aprì, vi cercò dentro e ne estrasse un grosso album rilegato pesante. L’aprì e cominciò a elencare le foto che via via mostrava a Mullaly:
– il cadavere di madre Teresa di Calcutta gonfio di gas dopo cinque giorni di esposizione nel clima torrido dell’estate indiana;
– le patografie di Stalin, Eisenhower e Rocky Marciano, con le registrazioni di: flusso sanguigno dell’aorta, battito cardiaco, fermentazioni e borborigmi intestinali, flusso fecale, ristagno vescicale;
– la prostata di Georges Pompidou prima e dopo l’intervento, accanto a una scatola di fiammiferi per confrontare le dimensioni;
– la fistola sacrale, simile a un formicaio, di un monaco del Monte Athos abbandonato dai compagni al vento e alle piogge;
– il condannato a morte Jacques Rivière fotografato: accanto alla ghigliottina; inginocchiato con il collo dentro la gogna e i polsi nei ceppi; nell’istante in cui la lama sta per tagliare nervi ossa tendini pelle; con la testa rotolata dentro la cesta di vimini, gli occhi aperti e stupiti, la bocca ancora spalancata (la ghigliottina pesa 580 chilogrammi ed è alta 4 metri e mezzo, cadendo da un’altezza di 2,25 metri la lama di 40 chilogrammi taglia il collo alla velocità di 6,5 metri al secondo, la testa viene spiccata in 2 centesimi di secondo e si calcola che mantenga un’attività cosciente per almeno un paio di minuti);
– i metodi e gli strumenti di tortura: la culla di Giuda, l’acchiappacollo o naccafango, il cavalletto squarciapalle, la pera orale (o rettale o vaginale), la ruota per fratturare (la vittima si trasforma in una specie di grosso burattino stillante che tergiversa in pozzanghere di sangue, un burattino dotato, come una piovra, di quattro tentacoli di carne cruda, viscida e amorfa), i flagelli, i violoni delle comari, lo straziatoio di seni, la mordacchia, la vergine di Norimberga, la cicogna da storpiatura, la veglia col pazzo, lo schiacciadita, l’immuramento, la sega (la vittima viene legata a testa in giù e si comincia a segare dal perineo), la propagginazione, la garotta, il piffero del baccanaro;
– un curdo col ventre squarciato, da cui vengono estratti gli intestini con un verricello e arrotolati su un grande rocchetto;
– la cinese torturata: tagliate le mammelle, legata a un palo, le ferite cosparse di sale e miele, esposta alle api e alle formiche;
– il cameriere greco ucciso con lo strumento a tre rebbi: prima dell’arpionamento (espressione di terrore e rassegnazione); durante l’affondamento dell’arma nella giugulare (dolore e incredulità); poi la spinta fino a raggiungere il cuore (ottundimento e morte).
– Basta, basta! – esclamò il rappresentante, pallido e sudato. Anche Trevor era in preda a una forte emozione. Ripose l’album nella valigia e la valigia nel bagagliaio.
– Allora… buon viaggio, – disse, e osservava l’orizzonte controsole, riparandosi gli occhi con la mano.
– Che strada farà?
Trevor guardò verso lo schermo dove anche in quel momento di sicuro venivano proiettati molti film. Credette di vedere Totò che pugnalava Anthony Perkins con il coltellaccio di Psycho e poi si buttava tra le gambe di BB mentre ne usciva il fungo velenoso di una bomba atomica, percorso da folgori e lampi. Ma era tutta una sua immaginazione. Di nuovo gli dispiacque di non aver fotografato nulla, la sera prima. Si guardò intorno cercando la nana, ma vide solo il vecchio che orinava contro la carcassa di una Dodge. Il rappresentante lo guardava fisso, i capelli spioventi, gli occhi annegati nelle borse.
– Come dice?
– Dico che strada farà.
– Non lo so… Andrò a sud.
– Allora forse c’incontreremo di nuovo. In Messico, forse. O a Panama.
Trevor fece un gesto vago e salì in macchina. Non partì subito. Aveva stampata nella retina l’immagine abbagliante di un’esplosione nucleare, l’ultima, quella che doveva aver provocato il disastro. Quel fulgore interno gli abbacinava il cervello, tutto ciò che vedeva lo vedeva per contrasto su quello sfondo estatico di luce.
Dopo un po’ mise in moto e si avviò. Nello specchietto vide Mullaly che agitava un braccio e tentava di inseguirlo, gridando qualcosa. Accelerò e uscì dal drive-in imboccando una stradetta piena di buche e di cespugli secchi. La macchina sobbalzava e cigolava, sollevando nuvole di polvere. Trevor vedeva tutto sfocato, come una pellicola sovraesposta.
Comunque andava a sud.