Annapolis: vincitori e vinti della conferenza di pace
29 Novembre 2007
Dopo mesi di preparativi, la lunga tre giorni
di Annapolis ha chiuso i battenti. Lunedì i primi incontri di Bush con Olmert e
Abu Mazen. Martedì la conferenza, aperta dal tanto atteso documento congiunto –
firmato da israeliani e palestinesi all’ultimo minuto. Mercoledì, infine, gli
incontri del presidente George W. Bush con il premier israeliano e il
presidente dell’Anp: in altre parole, l’inizio ufficiale dei negoziati.
Prima domanda, difficilissima: Annapolis è stata un successo? Sicuramente più
di quanto si aspettassero la maggior parte dei partecipanti e degli analisti.
L’accordo raggiunto (una pace entro il 2008, che sarà un’annata di contatti
seri e continuativi tra i due contendenti) è una perfetta via di mezzo tra
quello che chiedevano israeliani e palestinesi: Annapolis non ha sancito un
traguardo finale negli accordi – come voleva Abu Mazen –, ma neppure una
semplice (e vaga) dichiarazione d’intenti – come volevano gli israeliani.
Israele e l’Anp hanno messo direttamente la faccia di fronte al mondo,
assicurando tutto l’impegno possibile per giungere ad un accordo prima che il
presidente degli Stati Uniti lasci la Casa Bianca. E se le trattative dovessero
arenarsi, sarà lo stesso Bush (o meglio, il Segretario di Stato Condoleezza
Rice) a dare una spintarella alle due parti. Insomma, parlare di successo è
certo prematuro: ma le condizioni per fare qualcosa, e farlo bene, ci sono
tutte. Il solo raggiungimento del documento condiviso (cercato per mesi), i
partecipati discorsi di Olmert e Abu Mazen e la grande partecipazione
internazionale – che era venuta meno nelle scorse (mancate) occasioni di pace –
lasciano ben sperare.
Se dovessimo indicare dei “vincitori” – evidentemente sul breve termine, dato
che le trattative potrebbero sfumare nel corso del 2008 (come è sempre accaduto
in passato) –, questi sono sicuramente i due protagonisti – Israele e l’Anp – e
gli Stati Uniti. I due contendenti, per mesi, hanno fronteggiato nemici interni
ed esterni, senza perdersi d’animo: anche quando le divisioni sembravano
insuperabili, i due team di negoziatori non hanno mai perso la pazienza e sono
giunti, in extremis, alla dichiarazione congiunta. Stesso discorso vale per gli
Stati Uniti, e vera vincitrice appare più Condoleezza Rice che il presidente Bush:
il Segretario di Stato ha seguito passo dopo passo le trattative
israelo-palestinesi, intervenendo quando necessario per sbloccare il tavolo
sulle questioni più spinose. Il ruolo della Rice, ora che i negoziati non
riguardano più un documento generico ma una pace definitiva, assume un rilievo
ancora maggiore: una pace stabile in Medio Oriente passerà anche dagli sforzi
degli Stati Uniti e della loro intraprendente mediatrice.
Ma solo a fine 2008 sarà possibile parlare di successo o insuccesso. Il tavolo
dei volenterosi, infatti, è sin d’ora fortemente minacciato da coloro che
escono sconfitti dal vertice di Annapolis: Stati, organizzazioni e partiti che
non si daranno certo per vinti e fino all’ultimo cercheranno di far saltare gli
accordi.
Partiamo dai nemici esterni, capeggiati da Ahmadinejad. La tre giorni del
Maryland ha segnato un duro colpo all’immagine dell’Iran: gli Stati Uniti hanno
infatti portato alla conferenza Siria e Arabia Saudita, sordi ai richiami
all’ordine del presidente iraniano. Ahmadinejad si è adoperato per mesi nel
tentativo di convincere l’alleato siriano a boicottare il vertice, ma ha
miseramente fallito nei suoi intenti. Dopo aver esternato il suo stupore per il
“tradimento” di Assad, Ahmadinejad ha inveito ieri contro Israele e la
conferenza tradendo un certo nervosismo: “È impossibile che lo Stato sionista
sopravviva. Il collasso è nella natura di questo regime perché è stato creato
con l’aggressione, la menzogna, l’oppressione e il crimine” ha detto il
presidente iraniano, aggiungendo poi che presto tutti capiranno che “questa
conferenza è stata un fallimento sin dall’inizio”.
Ma anche gli Stati Arabi presenti alla conferenza non sono andati troppo per il
sottile con Israele. Il ministro degli Esteri siriano Faisal al-Miqdad ha
dichiarato ieri pubblicamente che la Siria prenderà in considerazione una
normalizzazione dei rapporti con lo Stato ebraico solo quando si vedrà
restituito il Golan. Secondo alcuni funzionari israeliani, citati dal Jerusalem
Post, il ministro siriano avrebbe inoltre chiesto agli israeliani di
lasciare le fattorie di Sheeba. Duro anche il delegato libanese alla
conferenza, il ministro della Cultura Tarek Mitri: alle richieste siriane ne
avrebbe aggiunte delle altre, tanto che un funzionario israeliano l’ha
paragonato ad un portavoce di Hezbollah. Toni maggiormente concilianti ha usato
invece il ministro degli Esteri saudita Saud al-Faisal, che ha ribadito
l’importanza dei negoziati e il supporto dell’Arabia Saudita nella ricerca di
una normalizzazione della convivenza israelo-palestinese.
Ma ben più temibili, tanto per Israele quanto per l’Anp, sono i nemici sul
fronte interno. Israele deve fronteggiare una folta frangia della popolazione
assolutamente contraria a qualsiasi compromesso: la conferenza, in terra
israeliana, è stata salutata da 15.000 fedeli che hanno pregato di fronte al
muro del pianto chiedendo il blocco di ogni concessione. In questo senso si
sono espressi poi i leader di tre delle maggiori organizzazioni
cristiano-evangeliche: il Rev. Malcom Hedding, fattosi portavoce del dissenso,
ha dichiarato che ogni tentativo di dividere Gerusalemme è per loro tragico e
inaccettabile. Ma Abu Mazen, ad Annapolis, ha parlato chiaro: i palestinesi
vogliono Gerusalemme Est, e pazienza se la maggior parte degli israeliani si
dichiara contraria. Il capo del Likud all’opposizione Benjamin Netanyahu,
infine, si è spinto sino a chiedere ai partiti conservatori che appoggiano
Olmert di uscire dalla coalizione di un governo che “svende il paese”. Tutti fattori
con i quali Olmert si troverà presto a fare i conti: da qui la presa di
coscienza, espressa ad Annapolis, della necessità di concessioni senza dubbio
“dolorose”.
Se la situazione in Israele è critica, nei territori palestinesi è davvero
drammatica. Hamas, che ha preso il controllo della Striscia di Gaza, è infatti
la spada di Damocle che pende sulla testa di Fatah e della pace. Così Ismail
Haniyeh, capo di Hamas a Gaza, in una controconferenza alla presenza di Jihad
islamica, Resistenza Popolare e Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina: “Che tutto il mondo ci ascolti: non cederemo un pollice di Palestina
e non riconosceremo mai Israele”. Dalle parole ai fatti: a poche ore
dall’apertura della conferenza di Annapolis, Hamas ha chiamato in piazza la
popolazione di Gaza City, che ha risposto con decine di migliaia di persone.
Anche in questo caso Haniyeh ha arringato – e infiammato – la folla: “Restiamo
fermi e determinati di fronte a chi attacca la volontà della nostra gente, i
nostri gruppi e le nostre armi di resistenza. Ribadiamo la legittimità della
resistenza, che è un diritto naturale”. Ai margini della Striscia, a questo
punto, sono partiti i primi disordini e i lanci di mortaio contro il vicino
israeliano.
E ieri, come nel peggiore degli incubi, i disordini si sono spostati in
Cisgiordania: nel West Bank, controllato da Fatah, si sono registrati forti
scontri tra militanti di Hamas e membri dell’Anp. Qualcuno inizia a dare a voce
al rischio più grande: quello di un golpe di Hamas in Cisgiordania, nel
tentativo di prendere possesso dei territori controllati da Abu Mazen.
L’operazione, evidentemente, è molto difficile: ma nessuno sa esattamente di
quali armamenti possa fregiarsi Hamas, e un ulteriore colpo di stato sarebbe
forse l’azione definitiva per mettere fine al sogno di Annapolis. Senza contare
che altri nemici esterni, come l’Iran, potrebbero premere in questo senso: non
%0Asolo spiritualmente, ma fornendo armi alle organizzazioni terroristiche che
operano nella Striscia. Fantapolitica? Per ora, forse sì. Ma la strada verso la
pace è una salita ancora molto ripida.