Approvato il “Piano Obama” ma il sogno finisce tra sprechi e scandali

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Approvato il “Piano Obama” ma il sogno finisce tra sprechi e scandali

11 Febbraio 2009

Presidente Obama, 4 febbraio scorso: "L’incapacità di agire, e di agire ora, farà sì che la crisi si tramuti in catastrofe". Attenzione, ha detto proprio “catastrofe”. Non male per il Presidente che due settimane fa, nel suo discorso inaugurale, aveva dichiarato che gli americani avevano scelto “la speranza e non la paura”. Questo vale, ovviamente, finché non c’è bisogno di fomentare la paura per far approvare un provvedimento.

E che dire della promessa di detronizzare i cambisti e cessare gli abusi di potere? A un ordine esecutivo esibito ostentatamente è seguita la nomina immediata di almeno una dozzina di ex-lobbisti nelle posizioni più prestigiose. Dopodiché, abbiamo un Segretario al Tesoro che ha ammesso di non capire il funzionamento del contributo per la sanità da versare ai suoi dipendenti nel proprio modulo di dichiarazione dei redditi. E ancora, l’affare Daschle, il quale ha dovuto commettere di buon grado un suicidio politico in base alla nuova regola di Washington secondo cui nessun Gabinetto può accogliere più di un evasore fiscale nello stesso momento.

Il caso di Tom Daschle è tanto più grave visto che il suo crimine non riguardava soltanto le imposte: come ha osservato il giornalista Michael Kinsley, il vero scandalo a Washington non riguarda ciò che è illegale, ma ciò che è lecito. Un conto è non pagare le tasse; ma ciò che è veramente inammissibile sono gli affari perfettamente legali che hanno fruttato a Daschle più di 5 milioni di dollari in soli due anni. Guadagnava un milione l’anno come consulente legale, ma non è un avvocato, né ufficialmente un lobbista. Nessuno paga stipendi del genere per assicurare ai propri soci notizie in anteprima direttamente dal Senato riguardo alle leggi in approvazione. Cifre di questo tipo arrivano solo quando una persona alza il telefono ed esercita il proprio potere.

Almeno Tim Geithner, il Segretario del Tesoro accusato di frode fiscale, aveva lavorato per alcuni anni all’ombra della pubblica amministrazione, percependo stipendi tutt’altro che stratosferici. Daschle, che intascava un ulteriore milione l’anno (più autista e caddy) per “consulenze generiche” nella ditta di investimenti finanziari appartenente ad un amico, rappresentava tutto ciò che Obama aveva affermato di voler eliminare da Washington.

Ciò che più nuoce all’immagine di Obama, ancor più di tutte le ipocrisie viste e sentite nel corso della campagna di insediamento, è lo stimulus package: la sua manovra economica. Ne ha incomprensibilmente devoluto la stesura a Nancy Pelosi e agli altri baroni della Camera dei Rappresentanti. Il prodotto finale, che inevitabilmente porta il nome di Obama, non solo è inadatto, non solo è scadente, ma è un abominio legislativo.

Non si tratta soltanto di pagine e pagine di esenzioni fiscali tagliate su misura, baratti e protezionismi dove anche uno solo tra questi potrebbe scatenare una rovinosa guerra commerciale come accadde per lo Smoot-Hawley Tariff Act (il provvedimento del 1930 che prevedeva un generale innalzamento delle tariffe doganali, e provocò il conseguente soffocamento del commercio internazionale, ndt). Non è soltanto l’evidente spreco, come nel caso degli 88,6 milioni di dollari stanziati per la costruzione di alcune nuove scuole pubbliche a Milwaukee, dove lo stesso giornale locale – il Milwaukee Journal Sentinel – dichiara iscrizioni in calo, 15 scuole abbandonate e, ovviamente, nessun progetto per ulteriori realizzazioni.

Essenzialmente, il problema è l’inganno con cui si preme per l’approvazione di un provvedimento, mentre le normali regole (convocazioni delle commissioni, ricerca di fondi per finanziare i programmi) vengono sospese in virtù del fatto che un’emergenza nazionale richiede uno stimolo immediato che crei occupazione –per poi gettare nel calderone centinaia di miliardi che nulla hanno a che fare con uno “stimolo”, che lo stesso ufficio risorse del Congresso dichiara non verranno spesi fino al 2011 ed oltre, e che non rappresentano altro che uno scambio di favori, interessi ristretti e provincialismi lobbistici. Proprio quello che Obama aveva affermato di voler cancellare da Washington.

O almeno, così aveva detto. Non “abolire”, ma “creare qualcosa di nuovo” – un nuovo modo di fare politica dove lo scambio di favori e la corruzione del passato avrebbero ceduto il passo ad una democrazia partecipativa che cresceva dal basso, che dava voce alle maggioranze. Questo era ciò che rendeva Obama così stupefacente ed innovativo. Pare invece che le “impellenti urgenze del momento” includano 150 milioni di dollari da versare per un’assicurazione sul bestiame.

L’Era Obama inizia con la più grande frenesia mai vista a Washington: la vecchia politica impegnata ad esercitare la propria influenza. In coincidenza con l’arrivo dello stimulus bill in Senato, scrive il Wall Street Journal, le grandi compagnie farmaceutiche e di alta tecnologia stavano furiosamente impegnandosi per ottenere un nuovo piano che permettesse di richiamare i capitali dall’estero, per beneficiare di cospicue agevolazioni fiscali. Le aziende vinicole della California e i produttori di agrumi della Florida combattevano furibondi per ottenere la modifica di una singola espressione in una parte del provvedimento: sostituire “coltivati” con “pronti per il mercato” avrebbe significato potere ottenere un contributo extra attraverso i nuovi “incentivi deprezzazione”.

Dopo la miracolosa campagna presidenziale del 2008, era chiaro che il mistero magico di Barack Obama si sarebbe dovuto interrompere. La nazione ora si stropiccia gli occhi e inizia a emergere dal sogno. L’allucinazione Obama doveva pur lasciar spazio al mero essere mortale. I grandiosi mutamenti etici tanto favoleggiati sarebbero divenuti una bella storia che i presidenti da sempre raccontano –e che questo presidente ha raccontato meglio di tutti gli altri. Credevo che il risveglio sarebbe durato sei mesi. Ci sono volute due settimane e mezzo.

Traduzione Alia K. Nardini

Tratto da The Jerusalem Post