Articolo 41: va riscritto così

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Articolo 41: va riscritto così

04 Febbraio 2011

La Costituzione economica – l’insieme cioè di disposizioni costituzionali che si riferiscono all’uomo come proprietario, imprenditore, risparmiatore e investitore – è una delle sezioni più controverse della nostra Carta fondamentale. I problemi interpretativi e applicativi di queste disposizioni riflettono in realtà tensioni più ampie, che hanno percorso talora con accenti laceranti gli Stati moderni e contemporanei dalla fine del secolo XIX, relativamente al rapporto tra istituzioni, individui e economia.

Non è quindi un caso se le letture che si danno delle nostre norme costituzionali disciplinanti il rapporto tra produzione, scambio e accumulazione della ricchezza da un lato e società e istituzioni dall’altro si siano prestate a facili strumentalizzazioni, come anche a più nobili tentativi di sintesi.

Oggetto dei più accesi dibattiti sono gli articoli relativi al diritto di proprietà e di iniziativa economica.

Proprio l’articolo che riconosce il diritto di iniziativa economica privata, l’articolo 41, è negli ultimi tempi al centro di ripetuti annunci di riforma.

È quindi utile cercare di capire cosa davvero esso consente, vieta o favorisce, per giudicare se sia davvero opportuno modificarlo e – nel caso – avanzare una proposta aderente alle esigenze socio-economiche del paese.

La Costituzione economica è, tra tutte le parti costituzionali, quella che più ha subito lo Zeitgeist che aleggiava e aleggia ancora in Italia.

Più che essere la Costituzione fonte della cultura economica italiana, è stata quest’ultima che ha forgiato un modello economico costituzionale secondo una teoria fino ad oggi prevalentemente interventista, giocando sulle clausole aperte delle disposizioni costituzionali e sul fatto che i costituenti non avevano in mente un preciso modello. Non può nascondersi una fiducia del costituente per le capacità dello Stato di sanare i cd. fallimenti del mercato tramite i suoi interventi in economia. Resta però il dato che, a ben vedere, tali interventi non erano congegnati come obbligatori, ma ad essi si sarebbe dovuti ricorrere solo in funzione del raggiungimento della piena promozione umana.

D’altra parte, ciò era coerente con il modello di Stato sociale che i costituenti avevano in mente. Neppure i liberali si opposero a questo modello, comprendendo che in quel momento storico non sarebbe stata possibile la realizzazione dei principi di laissez faire, e accontentandosi di aver portato a casa nel 1946 la liberalizzazione del commercio estero e del credito e l’ammissione dell’Italia alle istituzioni di Bretton Woods, come se «per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si [fossero volute opporre] ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa» (P. Calamandrei).

E così la possibilità per lo Stato di intervenire si è tradotta in un fortissimo condizionamento del mercato, non solo attraverso gli interventi indiretti, ma soprattutto attraverso la gestione di interi settori economici e dunque la creazione di monopoli legali.

In particolare, il diritto di iniziativa economica, cuore della Costituzione economica insieme al diritto di proprietà, è stato uno di quelli che più hanno ricevuto un’interpretazione in senso favorevole al diretto intervento statale, fino a leggervi la possibilità di un’economia socialista (come proposto dal giurista Lavagna).

L’art. 41 si apre con una dichiarazione di stampo liberale per cui «L’iniziativa economica privata è libera». Iniziativa, in questo caso, non va interpretata letteralmente come fase di avviamento di un’attività economica, ma in senso ampio come intrapresa economica, ovvero attività di impresa come pure ogni attività occasionale di chi utilizza la ricchezza per produrne di nuova.

Questo primo comma sembra esprimere la fiducia nei confronti degli individui come soggetti responsabili e capaci di costruire un mercato libero e la convinzione secondo cui gli interessi economici individuali non si pongono in contrasto con il progresso economico e materiale dell’intera collettività, ma anzi lo favoriscono. Tuttavia, i commi successivi prevedono ampi e pervasivi limiti a un diritto che, non appena è consacrato, pare rinnegato.

Innanzitutto, l’attività economica non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, e non deve recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. L’utilità sociale, dunque, non è presunta né implicita all’esercizio dell’attività di impresa, diversamente, ad esempio, da quanto riconosciuto in Costituzione per le cooperative. È questo uno dei passaggi che più di altri hanno giustificato l’intervento dello Stato in economia, esasperando la presunzione di contraddizione tra la funzione di accumulazione del capitale tipica dell’imprenditore privato e l’utilità sociale.

Altro passaggio cruciale, da questo punto di vista, potrebbe essersi rivelato il terzo comma dell’articolo, che affida alla legge la determinazione dei controlli e dei programmi affinché l’attività economica pubblica o privata sia indirizzata e coordinata a fini sociali. Questo passaggio anticipa la possibilità, su cui torna l’art. 43, dello svolgimento di attività economiche da parte dello Stato, ma soprattutto giustifica a tal punto l’intervento dello Stato da ammettere il controllo delle attività economiche tramite la programmazione.

Benché in sede costituente si scelse di utilizzare il termine “programmi”, anziché quello di “piani”, per non dare credito all’idea che si stesse scrivendo una costituzione socialista in cui, tramite i piani, lo Stato condizionasse d’autorità il mercato, è evidente che la programmazione è un forte strumento di controllo delle scelte di mercato, tipico di un’economia mista fortemente dirigista – se non di un’economia socialista – in cui lo Stato può pervasivamente indirizzare e suggerire le scelte dei privati.

L’utilizzo della tecnica della normativa rinnegante, che, ponendo sullo stesso piano concetti contrapposti (in questo caso: libero mercato/controllo statale; iniziativa privata/economia di Stato), ipoteca il significato dell’articolo alle intenzioni del legislatore e alle interpretazioni future, è una tecnica nota nel diritto e, potremmo dire, essenziale al bilanciamento dei diritti e delle libertà.

Ecco che può ritenersi coerente, a prescindere da considerazioni di merito, la determinazione di ampi e pervasivi limiti dell’iniziativa (dignità, sicurezza, libertà, utilità sociale, fini sociali) a una libertà appena riconosciuta e subito compressa. La condizione dell’esercizio di tale libertà al rispetto di così forti limiti aiuta a configurare tale libertà come non inviolabile, rispetto ad esempio a quelle proclamate nel Titolo primo, e – di fatto – ha consentito un invadente governo pubblico dell’economia.

L’art. 41 è stato certo ampiamente usato per giustificare interventi diretti e indiretti di uno Stato talora imprenditore, talora programmatore. Basti pensare al filo rosso che lo collega all’art. 43, il quale consente la riserva originaria o il trasferimento allo Stato e a enti pubblici di determinate imprese o categorie di imprese e che ha permesso negli anni Sessanta e Settanta la creazione di monopoli pubblici come l’Eni, l’Enel, la Rai, le Poste; nonché il mantenimento per settanta anni di quel colosso di impresa pubblica che fu l’IRI.

Oggi, tuttavia, una lettura scevra da molti dei condizionamenti politici del dopoguerra renderebbe chiaro che la preferenza del costituente non è né per l’iniziativa economica pubblica né per quella privata, quanto piuttosto per quell’iniziativa, pubblica o privata che sia, che concorra alla ricchezza materiale e spirituale del Paese, e che dunque non sia esercitata secondo modalità tali da compromettere né l’una né l’altra.

Ne è dimostrazione la tenuta dell’art. 41 rispetto all’ingresso dei principi di libero mercato imposti dall’Unione europea. Nella prova di resistenza rispetto alle regole di libera concorrenza dell’ordinamento comunitario, esso ha retto proprio nel presupposto che non impone un modello economico fisso, ma solo un obiettivo di benessere economico da raggiungere nelle forme più adeguate rispetto alle circostanze mutevoli dell’economia e della società, e dunque anche nelle forme del libero mercato.

Sarebbe quindi possibile un favor legislativo e politico per una libertà economica in grado di sprigionare le energie del mercato a Costituzione invariata, magari intervenendo solo sul piano legislativo, ad esempio con l’approvazione della legge sulla concorrenza, come sollecitato in questi giorni dal Presidente dell’Antitrust.

Anzi, concentrare l’attenzione sul piano costituzionale potrebbe essere controproducente rispetto all’esigenza, questa sì pressante, di intervenire a livello legislativo e amministrativo.

C’è, in altre parole, un margine di interpretazione costituzionale a favore della libertà di impresa ancora inesplorato, su cui si potrebbe insistere a livello legislativo e interpretativo prima di optare per l’emendamento costituzionale, che è procedura più complessa.

Ad ogni modo, poiché al meglio non c’è limite, in un’Italia strozzata dalla burocrazia e dalle tasse, una revisione in tono liberale dell’art. 41 potrebbe rivelarsi un sostegno al sistema economico.

Prima di intervenire sulla sostanza dell’art. 41, occorre però assicurare che vi sia un reale consenso costituzionale, e non solo una maggioranza poco più che necessaria. Modificare la Costituzione a colpi di strette maggioranze è un danno a quella coesione politica che, anche in momenti di tensione, dovrebbe comunque permanere intorno al testo fondamentale. Altrimenti, la modifica verrebbe subito dopo ripudiata e resa orfana, come la riforma del Titolo V ha in parte dimostrato.

Venendo al contenuto, il nuovo articolo 41 deve innanzitutto essere breve, per essere efficace.

Se la Costituzione serve a dettare sinteticamente i principi fondamentali che reggono la società, interventi che aggiungono nuovi commi non fanno altro che tradirne lo spirito e la funzione.

La riforma del Titolo V dovrebbe averci già insegnato la lezione secondo cui in diritto più si dice, più si complica. Le intenzioni di una eventuale proposta di modifica dell’art. 41 dovrebbero dunque andare nella direzione di asciugarne il testo eliminando il troppo e il vano, e non di annacquarlo ulteriormente.

Peraltro, se l’obiettivo, come emerge dalle proposte in corso, è quello di rendere chiaro che tutto ciò che non è vietato è lecito, rassicurando circa la conformità della libertà di impresa al dettato costituzionale, allora davvero sembra più utile togliere che aggiungere. È superfluo infatti aggiungere specificazioni ulteriori per palesare un antico principio noto fin dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, secondo cui «Tutto ciò che non è vietato dalla Legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina» (art. 5).

Via dunque, prima di tutto, il secondo comma dell’art. 41, che sottopone l’iniziativa economica ai limiti della dignità, dell’utilità sociale e della sicurezza. La Costituzione è già di per sé un sistema che bilancia interessi contrapposti: a complemento dell’attività di impresa stanno tra gli altri il diritto alla salute (art. 32) o il diritto a una giusta retribuzione (art. 36), e così via. E il diritto civile e penale già hanno gli strumenti sanzionatori per punire un’attività di impresa che violi i diritti altrui, i quali appunto trovano riconoscimento in altri articoli della Costituzione. Non occorre dunque ribadire all’art. 41 la necessità di un bilanciamento tra libertà e interessi degni di tutela.

Via, poi, il terzo comma, improntato a uno spirito socialista che pare aver ormai concluso il suo corso storico. Da questa abrogazione consegue, per necessità logica, l’abrogazione dell’art. 43.

Il mantenimento del solo primo comma potrebbe essere sufficiente a riconoscere quindi tutte le libertà connesse, come la libertà contrattuale, senza la quale l’iniziativa economica non potrebbe essere esercitata, e la libertà di concorrenza, visto che esso presuppone la compresenza di imprenditori che liberamente svolgono la loro attività.

Ad ogni modo, la libertà di concorrenza potrebbe anche essere resa esplicita.

Già in Assemblea costituente, il liberale on. Cortese propose un emendamento che avrebbe avvicinato la prospettiva costituzionale ai principi di libero mercato, mantenendo ferma la possibilità di un controllo del mercato per garantire il soddisfacimento dei bisogni essenziali. L’emendamento recitava: «La legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di difendere gli interessi e la libertà del consumatore».

Il consumatore, infatti, è destinatario non solo dei beni illimitati, ma pure di quelli ritenuti scarsi, come i servizi pubblici cd. essenziali. La garanzia della tutela dei suoi interessi è dunque un bilanciamento sufficiente ad evitare ciò che l’opinione comune considera rischio di fallimento dei mercati.

Togliere nell’art. 41 l’enfasi sulla presenza dello Stato e aggiungere la libertà di concorrenza bilanciandola con la tutela dei consumatori (restando sul piano dei principi senza scendere su quello delle regole, poiché solo i primi sono oggetto di una Costituzione) sembra sufficiente a garantire una libera e responsabile intrapresa economica, dove l’interesse alla massimizzazione del profitto è in armonia con il principio di solidarietà economica.

(Tratto da Istituto Bruno Leoni)