Ascesa e caduta del viceré di via XX Settembre

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Ascesa e caduta del viceré di via XX Settembre

08 Luglio 2011

Per anni è stato la principale porta d’accesso a quella fortezza chiamata Giulio Tremonti. L’inavvicinabile ministro dell’Economia aveva un’ombra, Marco Milanese, e quell’ombra era l’incubo, il miraggio, l’interlocutore unico per parlamentari, rappresentanti periferici dello Stato, sindaci e peones di varia estrazione alla caccia di un finanziamento, di un obolo, di un qualche soldino in più. Milanese leggeva gli emendamenti, guardava i bilanci, studiava le carte. Poi emetteva il suo verdetto: una sorte di viceré di un ministro che non amava i tavoli, le trattative, la concertazione e l’assalto alla diligenza.

Finché, qualche giorno fa, nel new deal tremontiano è entrato un concetto che mai si era affacciato in precedenza: la collegialità. Ma ormai l’ombra si era allontanata e il 28 giugno scorso, sentendo il morso degli investigatori, Milanese si era dimesso dall’incarico di consigliere politico di Tremonti. "Milanese è Milanese e Tremonti è Tremonti", aveva detto al Giornale per rimarcare la sua correttezza, la sua lealtà, il suo rispetto per il capo del dicastero.

Per tanti anni non è stato così. Per una lunga stagione Milanese è stato davvero l’anticamera pensante del ministro, il suo filtro col Parlamento, la stanza di decantazione dei suoi umori di professore e intellettuale, abituato a viaggiare una spanna sopra le richieste assillanti dei politici in visita con la mano ben aperta negli uffici di Via XX Settembre. Milanese era una via di mezzo fra l’aiutante di campo, il segretario, il consigliere tecnico. Una figura pesante. Più pesante, sicuramente, di un sottosegretario. Secondo, nella squadra del ministro, solo al capo di gabinetto Vincenzo Fortunato.

Un bel traguardo per quello che ai tempi di Mani pulite era solo un giovane ufficiale delle Fiamme Gialle. Bisogna partire da lì per ricostruire il breve ma importante percorso del cinquantaduenne deputato. L’allora capitano arriva a Milano, negli uffici di via Filzi, per sostituire uno dei tanti colleghi travolti dall’inchiesta condotta a ritmi indiavolati da Antonio Di Pietro. E a Milano il destino gli dà una mano. C’è un tentato scasso nello studio di Giulio Tremonti, principe dei commercialisti ma anche ministro del primo governo Berlusconi. E proprio con Tremonti, fino a diventarne socio, lavora Dario Romagnoli che negli anni Ottanta è stato compagno di studi di Milanese all’Accademia della Guardia di Finanza. Romagnoli è una testa d’uovo e ha chiuso il corso con un exploit classificandosi primo. Bravo, troppo bravo infatti dopo qualche tempo ha messo in un armadio la divisa ed è passato dall’altra parte. I due si ritrovano e Milanese vede nella traiettoria dell’amico il suo futuro. Anche perché Romagnoli lo porta dal ministro e nel gelido Tremonti si apre una fessura. Tremonti capisce che il ragazzo ha stoffa: Milanese diventa il suo aiutante di campo, resta nel corpo, ma viene distaccato.

Nel 2002 l’ormai colonnello si congeda ed entra direttamente nello staff del ministro, scala le posizioni fino a raggiungere il vertice della sua segreteria: di fatto è il suo braccio destro. Del resto ha due lauree, in Giurisprudenza e in Scienza della sicurezza economico-finanziaria, e un master in Diritto tributario internazionale, Insomma, è un tecnico con i fiocchi e non un’ex divisa di rappresentanza, buona per qualche parte coreografica come nei grandi romanzi russi dell’Ottocento. La sua ascesa pare inarrestabile. Ricopre incarichi in diverse società pubbliche, dalla Rai alle Ferrovie, da Ansaldo Energia ad Alitalia.

E avvia una relazione sentimentale con Manuela Bravi, portavoce di Tremonti. Poi, nel 2008, ormai sulla soglia dei cinquant’anni, ecco il grande salto: la candidatura in Parlamento. Lui, che è nato a Milano ma da genitori irpini di Cervinara, viene eletto nel collegio Campania 2. E fa in tempo a diventare vicecoordinatore regionale del Pdl, subito sotto il sottosegretario Nicola Cosentino. Poi la magistratura chiede l’arresto di Cosentino che viene salvato dal Parlamento ma deve lasciare il governo. Milanese invece finisce nei guai per via di un imprenditore, Paolo Viscione, pure originario di Cervinara che gli avrebbe offerto denaro e regali costosi. Nei giorni scorsi, a sorpresa, l’ex ufficiale testimonia contro un suo vecchio amico, il generale delle Fiamme Gialle Michele Adinolfi, nell’indagine sulla P4 e sulle fughe di notizie pilotate verso la cricca di Gigi Bisignani. I maligni sostengono che quella drammatica testimonianza, accompagnata dall’addio a Tremonti, sia l’estremo, disperato tentativo di fermare la caduta. Che invece viene accelerata.

(Tratto da Il Giornale)