Ascoltare Grillo e rimpiangere Totò
14 Settembre 2007
A quarant’anni dalla morte di Totò (1898-1967), in Italia, si torna a parlare di qualunquismo sull’onda dello straordinario successo di piazza registrato dal Vaffa-day del comico Beppe Grillo. Coincidenza del tutto casuale, beninteso, ma che rappresenta un’occasione per riflettere seriamente sia sul movimento antitasse fondato dal commediografo napoletano Guglielmo Giannini, sia sulle radici profonde dell’arte del Principe Antonio De Curtis – al quale nei giorni 12 e 13 settembre il Centro Internazionale di Studi Italiani dell’Università di Genova ha dedicato un convegno che si è svolto a Santa Margherita nello stupendo scenario di Villa Durazzo – sia sulle nuove forme dell’antipolitica rappresentate, questa volta, dal cabarettista genovese.
Che Totò sia stato l’espressione, più o meno consapevole, dell’italico basso continuo qualunquistico non ha bisogno forse di essere dimostrato. Amico di Giannini, sceneggiatore del suo primo film “Fermo con le mani!” (1937), stando alla testimonianza di Cesare Zavattini, “se Guglielmo Giannini gli offriva una cosa la faceva”.
Del resto, nell’unico film di cui aveva curato la sceneggiatura, “Siamo uomini o caporali?” Di Camillo Mastrocinque (1955), inseriva un monologo che sembrava una citazione puntuale da “La folla. Seimila anni di lotta contro la tirannide” (1945) il libro-manifesto dell’Uomo Qualunque. Vale la pena citarla per esteso: “L’umanità, io l’ho divisa in due categorie di persone: Uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali, per fortuna, è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare per tutta la vita, come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza mai la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza averne l’autorità, l’abilità o l’intelligenza ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque dottore ha capito? Caporale si nasce, non si diventa! A qualunque ceto essi appartengono, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso, hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi. Pensano tutti alla stessa maniera!”.
In realtà, da Guardie e Ladri (1951) a Gli onorevoli (1963), per limitarci a questi film assai noti, tutta la poetica di Totò è la trascrizione, in chiave tragicomica, dell’essenza spirituale del qualunquismo. Un fenomeno ricorrente e da non sottovalutare ma di cui pochi , nell’Italia di De Gasperi e del Fronte Popolare, colsero la più autentica dimensione storica e umana. L’ideologia azionista – perdente a livello politico, vincente a livello culturale – vide in esso l’incarnazione dell’ignavia e della barbarie, di quell’Italia che andava rivoltata come un guanto per venir ammessa nel santuario della Modernità.” Quando Dante inizia il suo viaggio nell’Oltretomba incontra una turba di spregevole gente, sciagurati che mai non fur vivi: Dante non vi riconosce se non un’anima sola che sdegna di chiamare a nome. Guarda e passa: è la folla degli uomini che vissero senza infamia e senza lode; gente vile che nella vita non scelse il suo posto di combattimento, non fu (come gli angeli neutrali) né con Dio né con Lucifero. Invano essi ora battono alle porte del Paradiso o dell’Inferno: non si entra nei luoghi della gloria o della punizione se non accettando la lotta della vita, se non partecipando a un partito, diremmo oggi” Così ne scriveva, nel 1945, lo storico Gabriele Pepe, vicino a quell’area da me definita, con brutto neologismo, gramsciazionista. (v. Gramsciazionismo e dintorni. Prefazione di Sergio Romano, Ed. Costantino Marco, 2001)
Tra i pochi che invece avevano compreso a fondo la genesi e la natura del movimento qualunquista, figura uno dei maggiori ingegni filosofici del secondo Novecento, Augusto Del Noce. In un brano riportato ora negli Scritti politici. 1930-1950 (a cura di Tommaso Dell’Era, Ed. Rubbettino 2001), il tradizionalista cattolico aveva scritto: ”Proprio in questa rivolta dell’uomo comune, di colui che all’élite politica non appartiene ed è da questa ridotto a strumento per l’attuazione di questo o quel piano, contro i ‘professionali della politica’ sta l’essenza del qualunquismo. Il successo del suo giornale non si può spiegare altrimenti. Forse che il milione di italiani che lo leggono sono tutti sovvenzionati dal capitalismo o tutti criptofascisti o tutti incapace di resistere alla tentazione leggera della maldicenza? – Si verrebbe alla malinconica conclusione che l’antifascismo non può stabilirsi in Italia che sotto forma di una ‘rieducatrice dittatura’ – si intende bene, dittatura provvisoria, ma quando mai una dittatura si è presentata altrimenti che come tale o quando mai ha riconosciuto spontaneamente esaurito il suo compito – che da che cosa sarebbe limitato nel tempo? Ma questo chiarimento della sua essenza ne resta pure determinato il limite. Elemento di verità dell’U.Q. la difesa del singolo |..| che è il motivo eterno della politica cristiana e liberale” ma resta legittima la domanda: ”la difesa del singolo può dirsi adeguatamente espressa dall’insegna dell’uomo qualunque?”.
Che la protesta sottile contro il potere e, soprattutto, contro le sue più rodomontesche incarnazioni sia una delle cifre più significative del cinema di Totò è, oltretutto, dimostrato dai non pochi film in cui il protagonista si rivolge alle folle con voce simile a quella che gli Italiani ascoltavano dal balcone di Piazza Venezia – v., ad es., l’arringa di Totokamen Sabakis in Totò contro Maciste di Ferdinando Cerchio (1962).
Di questi tempi, aveva detto un altro grande qualunquista, Leo Longanesi, nell’immediato dopoguerra, quando s’incontra per strada qualcuno, bisogna guardarsi bene dal chiedergli: “Ma dove ci siamo già visti?”. Non posso non ripensare a quella battuta ogni volta che mi capita di rivedere il film di Domenico Paolella, Destinazione Piovarolo (1955).
In un lungo e meditato articolo su ‘Repubblica’ , L’invasione barbarica di Beppe Grillo (12 settembre u.s.), Eugenio Scalfari ha esposto in maniera assai convincente le ragioni che rendono implausibili due dei tre punti fondamentali dell’antipolitica versione Beppe Grillo -il divieto dei membri del Parlamento di farne parte per più di due legislature, il divieto di presentarsi alle elezioni per i condannati fin dal primo grado di giurisdizione – e problematico il terzo – le primarie preliminari per tutti i candidati a cariche elettive.
Da buon erede dell’azionismo, però, Scalfari ha rivisto in Grillo una reincarnazione della ‘bestia nera’ Giannini, ignorando la distinzione sottile che c’è tra la protesta contro il ‘potere’ (Giannini) e quella contro la ‘corruzione’ (Grillo), tra la richiesta di non essere usati come carne da cannone per esperimenti totalitari e, quindi, di starsene a casa (Giannini) e la rivendicazione della democrazia assembleare contro i partiti (Grillo), tra la rivolta morale contro l’eccessiva fiscalità statale (Giannini) e l’invito rivolto ai pubblici poteri di assumersi la gestione dei servizi sociali sottraendola alla rapacità del mercato e degli interessi privati (Grillo).
In sintesi, si potrebbe dire che se il qualunquismo di Giannini è “liberalismo plebeo”: il popolo che vuol limitare il potere dello Stato di mettere mano alla sua borsa, come ci ha ricordato Piero Ostellino, è il simbolo stesso della “libertà dei moderni”; l’antipolitica di Grillo è “democrazia plebea”: il popolo che vuol delegare ma non essere rappresentato è il nocciolo duro del ‘Contratto Sociale’. In Giannini, ritroviamo un Benjamin Constant vestito da Umberto D. (l’immortale film di Vittorio De Sica); in Grillo un Jean Jacques Rousseau negli abiti di un giustizialista elettore di Antonio Di Pietro o di un no-global adepto di Pecoraro-Scanio.
Il peccato d’origine del qualunquismo storico era l’insensibilità al tema della partecipazione, il non aver capito che, senza il conflitto politico regolato tra partiti ‘costituzionali’, le libertà civili, e la privacy rischiano grosso e che non basta certo un ‘ragioniere ai vertici dello Stato’ per garantirli. Il peccato d’origine dell’odierna antipolitica sta, paradossalmente, nel suo non essere tale, ovvero nel tentativo di sfruttare la protesta della gente comune contro la piaga del malgoverno per affidare al ‘popolo’ il conseguimento di obiettivi che, legittimi o illegittimi, fanno parte della vecchia sinistra statalista e giacobina. Una menomazione nel primo caso, una patacca nel secondo.
Si sarebbe tentati di dire che tra il qualunquismo storico di Giannini e la sua (presunta) versione odierna del Vaffa-day c’è tutta la distanza che passa tra la comicità umanissima e incommensurabile del napoletano Totò e quella facile e superficiale di certo cabarettismo genovese. (Ben lontano, va precisato, dall’ars comica del grande Paolo Villaggio!)