Asili nido, uno dei tanti volti dello statalismo veltroniano

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Asili nido, uno dei tanti volti dello statalismo veltroniano

26 Febbraio 2008

Le donne, secondo il programma del Partito Democratico, sono l’asso (non “asse”, ma “asso”, con la “o”) dello sviluppo. Lo dice il titolo di uno dei commi di uno dei famosi dodici punti: dodici sì, ma non chiamiamoli punti, visto che ciascuno equivale a un capitolo che comprende sottocapitoli, codicilli e mini-decaloghi (non siamo ancora alle duecentottantuno pagine dell’Unione, ma si fa sempre in tempo ad aggiungere alleati e propositi: in fondo, non ci sono ancora i socialisti da annettere, sempre per correre “da soli”?).

Ad ogni buon conto, il nostro comma (il B del punto 6 del programma, dedicato allo stato sociale : “più eguaglianza e più sostegno alla famiglia”) prevede una serie di misure per incentivare l’occupazione femminile: tra le quali spicca la proposta dedicata agli asili nido. Più asili per tutti, è il concetto fondamentale, ribadito dal successivo comma c che titola esplicitamente “Asili nido per tutti e bambini più felici, sin dai primi giorni di vita”. Sembrerebbe di tornare ai bei tempi della prodiana ”organizzazione della felicità”: se non fosse che la proposta di Uòlter, rispetto alla famosa promessa di Prodi, unisce alle risonanze sinistre l’ombra inquietante di una longa manus statale anche sull’infanzia.

In sintesi, il PD propone non soltanto un deciso incremento del numero di asili nido (che secondo il testo devono diventare un servizio “universale”: sic!), ma intende imporre agli asili e alle scuole orari “lunghi e flessibili” – praticamente coincidenti con quelli della giornata lavorativa dei genitori -, e prevede per queste strutture educative l’apertura per tutto il corso dell’anno solare, con l’eccezione unica della settimana di Ferragosto. E con questa bella organizzazione da falansterio statalizzato, Veltroni reputa di dare una risposta significativa al problema femminile della conciliazione tra famiglia e lavoro.

All’ex sindaco di Roma non è neppure passato per la mente che le donne che lavorano potrebbero non nutrire l’unico desiderio di “parcheggiare” i figli da qualche parte, come emerge dal suo programma. Nelle tavole della legge veltroniane misure come gli incentivi alla flessibilità e l’allungamento del congedo parentale – nominati poco più che per dovere di cronaca – passano del tutto in secondo piano rispetto all’urgenza dilagante, impellente, di sbolognare i pargoli, per dedicarsi “liberamente” a produrre, tutto il giorno, tutti i giorni, tutto l’anno. E dell’affetto, del bisogno di contatto, dell’educazione chissenefrega: ci pensa lo Stato, che accoglie tra le sue possenti braccia i bimbi appena nati (si chiamano “assistenti di  maternità”, e secondo il programma del PD dovrebbero servire a limitare le difficoltà di sviluppo dei neonati nei primi dieci mesi di vita: proprio quando hanno bisogno della mamma e di nient’altro), continua a tenerli stretti tra le mura degli asili nido e delle scuole mentre i genitori lavorano, fino a che da adulti l’abbraccio non diventa una stretta mortale tra assistenzialismo inefficiente e tassazione insopportabile.

Ecco il modello di donna che emerge dal programma democratico: una lavoratrice indefessa, che dopo aver partorito (magari nell’acqua e con le tecniche di respirazione orientali, in ossequio alla nouvelle vague della naturalità procreativa) si libera dei figli nelle forme più svariate – ma tutte previste e incentivate dallo Stato – per rivederli una volta all’anno, d’estate (niente feste comandate, siamo laici). Il problema sta tutto qui, in questa impostazione che – per quanto il PD rinneghi le sue vere radici – rimane quella di una certa, vecchia sinistra: modernizzata, per carità, tant’è vero che si preoccupa anzitutto della produttività. Ma il punto è proprio questo: il programma democratico non ha in mente le esigenze e le reali necessità delle donne, ma solo un concetto di “sviluppo” tanto impersonale quanto astratto, che crede di perseguire spossessando le madri dei loro figli, invece di aiutarle a stare loro vicino.

Per quanto parlare faccia di educazione – definita nel programma “il miglior ascensore sociale” – il PD non ha il minimo riguardo per la prima, insostituibile educazione: quella che un liberale come John Locke riteneva poter essere impartita dai genitori, e da loro soltanto. Una responsabilità, secondo Locke, impossibile da delegare anche al precettore più qualificato: figuriamoci alle assistenti di maternità (le quali, là dove esistono, non servono a costruire un “contesto affettivo stabile e accogliente”, ma semmai ad alleviare le fatiche “pratiche” delle neomamme per dare loro modo di pensare solo ai bimbi).  Invece di liberare tempo e risorse perché i genitori possano dedicarsi al loro compito – agendo decisamente sul mercato del lavoro, aperto a forme di flessibilità (come il part-time e il telelavoro) che oggi non sono diritti ma semplici opzioni -, il buon Veltroni ha deciso di avocare a sé il compito stesso, invitando cortesemente le madri (e i padri) a farsi gli “affari” propri, tanto i loro figli sono in “buone mani”. E la chiamano felicità.