Aspettiamo con ansia il G8 sperando che stavolta produca qualche risultato

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Aspettiamo con ansia il G8 sperando che stavolta produca qualche risultato

01 Luglio 2009

Le tre giornate di incontri e discussioni che si terranno all’Aquila dall’8 al 10 luglio mettono in scena un modo di “fare politica” che attesta, al tempo stesso, la forza e la debolezza dei leader delle principali realtà del mondo contemporaneo.

Sul piano dell’analisi fattuale, è chiaro che il rito di questi incontri dai contenuti del tutto vaghi tende a definire uno spazio decisionale sottratto a ogni confronto. In fondo, le scelte assunte a livello nazionale devono in qualche modo soddisfare pretese assai definite e s’inseriscono entro una discussione pubblica che pone, in taluni casi, limiti non valicabili. Quando un primo ministro delibera in materia di istruzione o sanità, poi ne deve in qualche modo risponderne dinanzi all’opinione pubblica.

Il G8 e, più in generale, tutti questi consessi internazionali permettono di partecipare a decisioni di cui non si sarà mai chiamati a rendere conto. Qualcosa di simile potrà succedere anche stavolta: che si tratti delle misure da assumere di fronte all’Iran in rivolta, della crisi finanziaria, del commercio internazionale, del destino dei paesi più poveri o di altro.

In realtà, il più delle volte i G8 hanno soprattutto attestato l’impotenza delle maggiori potenze nell’adottare risoluzioni. Anche se in Europa si fatica a comprenderlo, c’è nel Dna degli Stati Uniti una vocazione isolazionista, in senso lato, che non va mai sottostimata. A fine Settecento le antiche colonie hanno dichiarato guerra a re Giorgio nella convinzione che la libertà coincideva con l’indipendenza, e questo atteggiamento permane nella contrarietà di tanti americani di fronte ad ogni prospettiva multilateralista.

Negli ultimi anni gli Stati Uniti hanno ribadito più volte la volontà di non rinunciare alla propria sovranità per condividere con altri le responsabilità sulla scena mondiale. In fondo, però, la sconfitta di George W. Bush alle presidenziali di fine 2008 può essere letta anche come la disfatta del suo unilateralismo. Oltre a ciò, la crisi ha fortemente minato il prestigio degli americani. Restare da soli nelle decisioni che contano, e poi pretendere comunque il sostegno degli alleati europei e asiatici ogni volta che è necessario, non sembrerebbe più possibile.

Nel corso degli ultimi incontri, anche se i protagonisti non sono riusciti a trovare un accordo su ogni questione, è pur vero che su vari temi si è registrato un consenso piuttosto ampio. In fondo, molti capi di Stato e di governo si sono presentati ai precedenti meeting con la proposta di dilatare il già ampio controllo sull’economia: e si sono facilmente confortati l’un l’altro nella scelta. Da qui è derivata anche la comune volontà di avversare i “paradisi fiscali” (le piccole giurisdizioni a limitata pressione fiscale), con il chiaro intento di restaurare una qualche “economia di comando”.

Tutto questo non promette nulla di buono: ed è un vero peccato. Anche in merito ai drammi del Terzo Mondo (un po’ ovunque grandi poster invitano a “fare pressione” sui capi di Stato – da Obama a Berlusconi, da Sarkozy alla Merkel – perché non dimentichino l’Africa nera o l’America latina), i governi lasciano intendere che con l’esplosione della crisi gli spazi di manovra per aiutare il Terzo Mondo si sono ristretti. Ma questo modo di ragionare fa acqua.

Ciò di cui il Sud del mondo ha bisogno non è affatto un nuovo programma di aiuti che destini risorse ai governi autoritari che opprimono la parte più povera della popolazione mondiale. Si tratta, invece, come chiedono associazioni di vario genere e non necessariamente liberali (basti pensare a Oxfam), di smantellare il protezionismo, agricolo e non solo, che arricchisce solo piccoli gruppi privilegiati.

Se vogliono aiutare la Costa d’Avorio o l’Argentina, gli otto Grandi comincino a cancellare tutte le regole che chiudono i mercati occidentali di fronte al lavoro e all’inventiva delle popolazioni in difficoltà. Si tratterebbe, certo, di una riduzione del loro potere: ed è proprio per questo che sono restii a compierlo.