Assad cadrà presto. Speriamo solo non per mano dei fratelli musulmani
31 Ottobre 2011
di Souad Sbai
Damasco non è più solo la capitale siriana, concentrato di storia e di cultura, ma anche e soprattutto il crocevia storiografico di due epoche: quella che si chiuderà a breve e quella che si aprirà domani. Stretta com’è fra Turchia, Iraq, Iran, Libano e Arabia Saudita, la terra degli Assad non poteva non divenire un passaggio obbligato per la rivoluzione araba, che ormai è assodato non essere più primavera, ma praticamente autunno inoltrato.
Cuscinetto inconsapevole fra conservazione e rivoluzione? Probabilmente sì, perché Damasco è una roccaforte che non vuole cadere, sebbene i morti sul terreno si contino ogni giorno e la sua stabilità venga costantemente minata dalle insurrezioni di piazza a Damasco e in altre sue città strategicamente decisive. Una domanda però deve essere posta, tentando di astrarsi per un momento dall’emotività del momento: cui prodest la caduta della Siria? Il filo rosso che collega le rivoluzioni arabe con l’avanzata dell’estremismo vorrebbe passare in un territorio cardine e farne un vessillo, non solo politico ma anche militare ed economico.
Nessuno può ignorare che il regime degli Assad abbia a disposizione un complesso economico capace di non aver paura di alcuna crisi e uno militare capace di scoraggiare qualsiasi idea di attacco dall’esterno. Ma anche la dinastia cadrà, un giorno, come è normale che sia; la discriminante è il come. E ad opera di chi, soprattutto. Ormai i Fratelli Musulmani con la loro rivoluzione hanno preso un ritmo cadenzato e serrato, che non accenna a fermarsi, né a rallentare. Dalla Tunisia all’Egitto, passando per Libia, Yemen e Bahrain, ormai non c’è più alcun paese che non sia stato toccato dalla rivoluzione islamica.
La Tunisia, dove la vittoria di Ennahdha ha visto manifestare tutti i moderati in piazza e assaltare le sedi del partito islamico, è ormai sull’orlo del baratro, abbandonata al suo destino dalla Comunità Internazionale. La Libia, che ha visto più morti in questi otto mesi che in tutta le quarantennale epoca di governo del Colonnello e nessuno ha il coraggio di dire che questa guerra è stata un disastro, di cui l’estremismo raccoglierà tutti i frutti. E infine lo Yemen, in cui migliaia di donne velate, tanto da formare un enorme niqab collettivo, sfilano contro Saleh, allo stesso tempo rivelando il carattere e la genesi estremista di queste rivolte.
Proprio in quest’ottica, la Siria rappresenta per la Fratellanza il tassello più importante ma paradossalmente più difficile da raggiungere. Assad pare non risentire della pressione interna dei rivoltosi e meno che mai di quella esterna, peraltro assai blanda, della comunità internazionale. E la popolazione civile, peraltro, ha compreso quale sia la ragione delle rivolte, visto che il suo entusiasmo viene man mano a scemare. E sullo sfondo il complotto iraniano – saudita, che dagli Usa qualcuno vorrebbe erigere a imperitura motivazione della propria permanenza al potere a Washington.
Gli Assad sono chiaramente accerchiati, ma decisi a rimanere al timone. E forse questo è il male minore, vista l’avanzata trionfante e senza ostacoli della Fratellanza in tutto il mondo arabo; questo pensano ultimamente molti intellettuali arabi profondamente preoccupati, perché conoscono quel mondo e intuiscono nitidamente i rischi di un’avanzata del genere. La Tunisia e la Libia poi sono Nordafrica, la Siria è già Medioriente. E laggiù il panorama che si apre e di tutt’altro spessore, politico, militare, economico e sociale.
Con un Iran in mano ad Ahmadinejad, un Iraq ormai terra di sangue e di violenze terroristiche e un Libano sempre in fermento, la Siria rimane paradossalmente l’unica speranza per mantenere quel quadrante ancora in equilibrio e non farlo implodere del tutto. Spezzare il ritmo, si diceva in precedenza, di un gruppo, la fratellanza musulmana, che non conosce pause né mezze misure. La permanenza duratura degli Assad al potere è per loro una spina nel fianco non indifferente, che non gli permette di mettere a segno il colpo grosso; la comunità internazionale, che finora ha assecondato pedissequamente il loro progetto, oggi pare con la Siria stranamente timorosa, quasi non volesse mettersi in gioco per non causare un danno maggiore.
E torniamo alla domanda iniziale: cui prodest, a chi giova la caduta degli Assad? Solo a chi ha il sogno, realizzato per buona parte, di colonizzare tutto un quadrante per restaurare un’idea di califfato globale. La dinastia Assad è, come tutte le cose terrene, soggetta ad un inizio e ad una fine, ma ci auguriamo non per mano della Fratellanza, che sa bene come rivoltare a suo favore un popolo affamato di libertà, dandogli in pasto prima i nemici storici e poi, come ultima pennellata, la prospettiva della conquista rapida e totale dell’Occidente.